Netflix / Storia di un campione arrogante
Netflix e l'identità di rete: quando il televisivo prescinde dal televisore
Il primo febbraio del 2013, ovvero il giorno in cui viene rilasciata integralmente la prima stagione di House of Cards, rappresenta il momento in cui cambia la storia di Netflix e sotto alcuni aspetti anche quella della televisione. Ai più il noto distributore potrebbe sembrare una novità nell’economia statunitense, visto anche il vento in poppa di questi ultimi tempi, ma a guardar bene la sua nascita risale al 1997, anno dal quale ha cambiato più volte fisionomia, arrivando fino a prima del suddetto fatidico giorno a essere il più importante distributore di film e serie televisive al mondo. Che sia a mezzo posta o in streaming, la library di Netflix è da tanto tempo a questa parte uno degli spazi immateriali più invidiati al mondo, al pari solo del suo misterioso algoritmo capace di personalizzare l’offerta con un’ergonomia mai vista in questo genere di piattaforme.
Tutto giusto, tutto bello, ma se oggi chiunque, anche il più sprovveduto tra gli appassionati di cinema, parla di Netflix non è certo perché ha distrutto la concorrenza del videonoleggio, da Blockbuster in avanti; quel febbraio di due anni fa ha cambiato le carte in tavola, relativizzando l’identità che la piattaforma si era costruita fino a quel momento e lavorando a una ridefinizione del marchio del tutto nuova, basata principalmente sulle produzioni televisive originali con le quali ha invaso il mercato del piccolo schermo con rara prepotenza.
La domanda di partenza per un soggetto come Netflix che si accinge a entrare nel mercato televisivo è: cosa voglio diventare? Alla quale segue: chi è il mio concorrente? In questi casi la prima cosa da fare è lavorare sul posizionamento, ovvero sulla costruzione di un brand riconoscibile e capace di indirizzarsi verso una particolare nicchia di pubblico, e da lì sfidare con i propri prodotti determinate emittenti e dunque specifici modelli estetici e narrativi. Dare un’occhiata da vicino a House of Cards può essere da questo punto di vista illuminante.
Si tratta del remake americano di una serie inglese, la quale a sua volta era l’adattamento dell’omonimo romanzo di Michael Dobbs, opera letteraria fortemente ispirata a esperienze realmente vissute dall’autore quando era capo dello staff di Margaret Thatcher.
Sin da queste prime tracce sui natali della serie è chiara la quantità di sovrascritture che il prodotto si trascina, un’eredità letteraria e britannica che costituisce la più immediata auto-denuncia di qualità che si possa immaginare nella televisione statunitense, una vera e propria dichiarazione di intenti. Non è tutto. I diritti della serie sono stati pagati la cifra record di cento milioni di dollari con l’accordo di sviluppare due stagioni da tredici episodi (poi aumentate per il clamoroso successo della serie), ovvero un progetto impermeabile a qualsiasi tipo di perturbazione e quindi in grado di calamitare personalità di altissimo profilo. Da qui si arriva all’altro affluente principale: il cinema. Garantire un lavoro sicuro per due anni e grande libertà creativa ha consentito a Netflix di ingaggiare Beau Willimon (sceneggiatore di Le Idi di Marzo) come showrunner, David Fincher come regista dei primi due episodi, incaricato di dare l’imprinting estetico alla serie e soprattutto i divi cinematografici Kevin Spacey e Robin Wright senza i quali questo prodotto non potrebbe assolutamente esistere.
House of Cards arriva come un terremoto a sfidare i prodotti originali della televisione premium cable, HBO in primis, offrendo uno show della stessa tipologia, fatto con gli stessi presupposti, ma a un prezzo nettamente inferiore (dieci dollari al mese contro una cifra sette-otto volte maggiore) e soprattutto da fruire con una tecnologia e con delle tempistiche assolutamente nuove.
Veniamo quindi al punto principale, quello tecnologico. Netflix sin dall’inizio ha puntato fortissimo sul binge-watching – che in italiano si può tradurre con la maratona – facendo di questa particolare modalità di fruizione il proprio marchio di fabbrica. Gli episodi delle serie vengono resi disponibili a blocchi stagionali, smantellando completamente la modalità “a palinsesto” della televisione tradizionale e dando allo spettatore la possibilità di vedere ciò che vuole, quando vuole e dove vuole. Anyway, Anytime, Anywhere.
Questo tipo di libertà ha fatto anche da detonatore di una serie di potenzialità creative fino a quel momento inibite da modelli distributivi troppo stringenti e costrittivi. Ne è un perfetto esempio l’altra serie di grande successo targata Netflix, Orange Is The New Black, adattamento dell’omonimo libro di memorie di Piper Kerman. Non dover rispettare le griglie degli slot televisivi conduce a sperimentazioni narrative e ibridazioni tra generi inedite: OITNB non è solo un originalissimo racconto carcerario al femminile dove tutte le retoriche narrative e stilistiche del prison movie vengono declinate in modalità nuove e quanto mai affascinanti, ma anche un cocktail di generi dove al racconto di formazione si alterna la commedia nera, il dramma familiare e l’affresco corale multietnico. Non è sbagliato dire che il protagonista della serie è il carcere, all’interno del quale è possibile sperimentare senza freni, sia dal punto di vista della durata degli episodi – la serie viene annoverata tra le comedy nelle categorie per i premi principali, ma, cosa assolutamente anomala, ha episodi della durata di un’ora – che da quello narrativo, offrendo storyline interne di diversa lunghezza e puntate capaci di raccontare punti di vista sempre differenti data la grande coralità della narrazione.
A tre anni dall’inizio delle produzioni originali, il 2015 rappresenta un ulteriore momento di svolta per Netflix, per almeno tre motivi di cui il primo – la partnership con la Marvel – verrà affrontato in un altro degli approfondimenti di questa copertina, mentre gli altri due accompagneranno il presente articolo alla sua conclusione.
In questa prima parte del 2015 infatti Netflix ha rilasciato due serie su cui punta tantissimo e che non a caso sono le prime due opere davvero originali, ovvero Bloodline e Sense8. Se fino ad oggi le serie di successo come House of Cards sono state sempre delle riscritture, indipendentemente dai media di partenza, queste due arrivano dal nulla, direttamente dalla creatività dei propri autori, mettendo in evidenza il legame strettissimo tra testo e contesto, ovvero tra il prodotto seriale e la modalità produttiva e distributiva in cui questo si presenta.
Bloodline è una serie che non avrebbe ragione di esistere in un’altra emittente, o meglio, verrebbero meno alcuni dei presupposti principali che scandiscono la sua natura. La serie è infatti un family drama ambientato nelle isole Keys della Florida, nel cui intreccio c’è una forte trama investigativa, la quale è articolata attraverso un movimento di vai e vieni temporale tra passato, presente e futuro. Ogni episodio ha come titolazione un numero (come se fosse un capitolo di testo unico), tanto da sottolineare ancora di più la natura letteraria della serie, i cui segmenti episodici da soli perdono completamente la loro importanza tradizionale diventando funzionali all’unità stagionale. Bloodline è una serie estremamente serializzata, che esaspera a dismisura la novelization e che, proprio come un libro, è fatta per essere fruita a proprio piacimento, tutta insieme oppure in una settimana.
Sense8 invece è ad oggi l’opera più ambiziosa di Netflix, un racconto sci-fi partorito dalla mente dei fratelli Wachowski affiancati dal guru della fantascienza e del fumetto J. Michael Straczynski , autore della visionaria e pionieristica Babylon 5.
La serie racconta le storie di otto individui appartenenti ad altrettante città diverse del globo terracqueo che per una misteriosa ragione sono collegati l’uno all’altro, capaci in alcuni momenti di mettersi in contatto, di scontrarsi e confrontarsi. Attraverso quest’espediente la storia si presenta come un dispositivo narrativo di indomabile creatività, in grado di far esplodere l’immaginario degli autori all’interno di un universo narrativo espanso, privo dei limiti della forma filmica e libero di evolversi nel tempo e nello spazio. É come se ciò che è stato messo in campo in Cloud Atlas trovasse spazio e tempo per moltiplicarsi e acquisire una forma eco-sistemica in cui personaggi, forme e mondi cominciano a vivere di vita propria. L’operazione ha naturalmente un’ambizione enorme e in quanto tale non è priva di difetti, ma si tratta di passi falsi che vanno senza dubbio perdonati al cospetto di un amore così genuino per il genere umano in quanto tale e un coraggio creativo che mette in conto anche alcune ineludibili cadute di stile.
L’ultima – ma non per importanza – strategia di posizionamento e differenziazione adottata da Netflix in questa sua nuova stagione va ricondotta alla parola espansione. Economica, creativa, geografica. Il boom dei precedenti due anni si è basato sulla diffusione di un’idea di rete di grande solidità, estremamente compatta, priva di compromessi e capace di andare fino in fondo a testa bassa. Il binge-watching ha rappresentato una sorta di biglietto da visita: vedere tutte le puntate di seguito come se fossero in home video è diventato una specie di sinonimo di Netflix, una sineddoche sicuramente parziale, ma estremamente riconoscibile. Questo ha portato a una grande crescita sul piano della popolarità, così come a un aumento di capitale economico non indifferente, legato anche alla quotazione in borsa del marchio. Il passo successivo, che qualche anno fa pareva inimmaginabile, ora si presenta come la cosa più naturale del mondo: a un’espansione economica corrisponde un’espansione geografica e all’invasione dei mercati internazionali da parte di Netflix consegue il tentativo, ambizioso ma non campato in aria, di co-produrre serie televisive con emittenti locali; è questo il caso di Between, serie sviluppata assieme a City, canale broadcast canadese.
Lavorare con altre emittenti, specie se appartenenti a mercati televisivi differenti, impone una ridiscussione dei propri programmi così come una riconfigurazione delle strategie adottate, sia dal punto di vista estetico-narrativo che da quello creativo. City è una rete generalista che importa dall’America serie come Scandal e Revenge, il cui pubblico va intercettato in maniera non dissimile a quanto fanno le suddette serie ma, per forza di cose, con modalità narrative differenti da quelle a cui Netflix è sempre stata abituata. Per queste ragioni Between segna un punto di grande discontinuità nella storia di Netflix essendo la prima serie distribuita con scansione settimanale, in maniera sincronizzata con il palinsesto di City. Questo porta anche a modifiche sostanziali di tipo estetico-narrativo: invadere il mercato della TV generalista vuol dire competere con lo stesso tipo di prodotto, ragion per cui Between è progettato e articolato in maniera molta più simile a lavori come Lost o Fringe che ai drama HBO come Boardwalk Empire. Siamo di fronte a una narrazione che mira più al pubblico di massa che alle nicchie, tanto che sin dal pilot sono visibili connotati genetici completamente differenti, a cominciare dall’uso di tecniche di corteggiamento spettatoriale come i cliffhanger e dalla maggior quantità di episodi auto-conclusivi atti a non lasciar scappare quel tipo di spettatore saltuario che non vuole rinunciare all’intrattenimento da quarantacinque minuti.
Al termine di questo lungo focus sulla nascita e lo sviluppo delle serie originali targate Netflix, intercettate attraverso le componenti di innovazione tecnologica, produttiva e narrativa di cui si sono fatte portatrici, è possibile trarre alcune sintetiche conclusioni.
Lo sviluppo selvaggio della piattaforma ha potuto contare su un capitale di base enorme, una disponibilità economica smisurata costruita sul dominio nel mercato del noleggio e dello streaming on line, che ha consentito di buttarsi a capofitto in un mondo, quello delle produzioni originali, assolutamente nuovo per i soggetti over-the-top (definiti così perché, privi di un’infrastruttura concreta, viaggiano “sopra la rete”).
L’entrata nel mercato delle serie televisive ha avuto come costante dominante un innegabile coraggio: ogni volta Netflix ha applicato l’obamiano “when in trouble, go big” scommettendo sempre più forte, alzando sempre di più la posta in gioco, a costo anche di lasciarci le penne facendo investimenti ad alto rischio (la cifra a cui sono stati acquistati i diritti di House of Cards è solo la prima di tante scelte impavide).
In ultima istanza possiamo sostenere con certezza che la costante che tiene insieme tutto è una spregiudicatezza fuori dal comune, un’arroganza assolutamente inedita nel mondo dei media, una sicurezza sconfinata nei propri mezzi, nei propri elementi creativi e nella possibilità di proporre al contempo prodotti innovativi, popolari e vittoriosi nei confronti della concorrenza. In barba a tutte la cautele che in genere si adottano in televisione, specie quando ci sono in ballo così tanti soldi, Netflix si è comportata in modo splendidamente strafottente, seguendo i propri principi in modo radicale, rinnovando i propri prodotti senza bisogno di alcun riscontro del pubblico, promuovendoli con campagne di marketing di rara aggressività e dando agli autori una libertà creativa invidiabile da qualsiasi altro contesto produttivo statunitense.