New York 2015 / Arabian Nights
''Le mille e una notte'' di Miguel Gomes: come il mito arabo diventa il manifesto della crisi economica europea.
A dispetto del titolo, fortunatamente Arabian Nights di Miguel Gomes non ha niente a che vedere con la storia de Le mille e una notte, la raccolta di novelle risalente al X secolo di origine persiana.
Quel groviglio di racconti che hanno come filo conduttore la bella Shahraz?d , la sposa del sultano che ogni notte racconta al marito una storia diversa, è solo un’impronta, un sapore, una tecnica narrativa e qualvolta un’ambientazione mitica e lontana nella trilogia del regista portoghese. Niente di più.
I tre film (nei titoli originali, As mil e uma noite Volum I O’ inquieto; As mil e uma noite Volum II O’ desolado; As mil e uma noite Volum III O’ encantado) s’incastrano l’un l’altro come le storie che vengono raccontate da Shahraz?d , sulle rive di una ipotetica ed improbabile Baghdad. Ma, attenzione, le storie non sono quelle di Aladino, Sinbad o Ali Baba. Fin dall’incipit del primo film, O’ Inquieto, Gomes stesso è chiaro riguardo la sua poetica, e nel prologo (utilizzato precedentemente in Tabu) si domanda: mentre il Portogallo è in piena crisi economica, le fabbriche minacciano i licenziamenti e gli operai gli scioperi e le manifestazioni ad oltranza, come si può non raccontare il reale?
Impossibile.
Il compito del regista è quindi rappresentare il reale attraverso delle storie, anche di fantasia, anche fantastiche, anche mitiche o assurde purché aiutino a far luce sul presente. Così, le novelle di Shahraz?d sono solo un pretesto per descrivere un mondo martoriato da una crisi economica e sociale, un paese difettoso, malconcio, in balia dei venti e delle decisioni dei potenti. Le mille e una notte diventa un’allegoria dei giorni nostri, del presente, e nonché la prima testimonianza della crisi europea. A Gomes spetta quindi il primato di rappresentare le conseguenza delle Troika e delle riforme europee, sostenute dai banchieri internazionali. Il tutto in un mondo mitico però, fiabesco, incantato, ma nonostante ciò vero, crudo, talvolta molesto, maleducato ed irriverente. Una stilistica e una poetica che sono frutto di un’attenta riflessione sui rapporti fra realtà e finzione.
Nelle mani di Gomes facciamo avanti e indietro fra il mito e la storia, fra il passato e il presente, senza sapere cosa ci aspetterà, ne’ riuscendo ad intuire l’epilogo dei suoi racconti. Quando decide di inserire spezzoni di realtà, sono storie spudoratamente e fastidiosamente vere, che creano uno scarto inconfondibile con la finzione che invece è sempre al di sopra delle righe e dei canoni, sempre spudoratamente falsa. C’è un gallo che parla e prevede sciagure, una balena che esplode, una pozione magica e una sirena arenata sulla spiaggia. A questi elementi assurdi e onirici che rimandano a Buñuel, si contrappongono storie verissime e crudeli, testimonianze di un tempo non ancora rappresentato, in atto e in divenire.
Per assurdo il primo grande testimone della crisi del Vecchio Continente, si avvale dell’assurdo. Sbeffeggia il reale, si prende gioco del sacro come del profano. Mescola generi per crearne uno nuovo, concima la fantasia con la realtà, accosta il recitato al documentario, dando vita ad un film ibrido. Verrebbe da dire che Gomes si è divertito a colorare fuori dalle righe, per vedere se c’è dell’altro oltre al consueto e al prevedibile. E nel colorare liberamente ha creato un mondo nuovo, con un sistema interno e una logica indecifrabile. I volti sono quelli di chi vive nel porto da sempre, con la pelle scavata dal vento e consumata dalla salsedine, oppure sono tristi e rassegnati come chi da mesi è in cerca di un lavoro. Volti martoriati dalla vita, dalla fatica, dai dolori e dal tempo che ricordano un’estetica pasoliniana. E’ l’affresco dell’Europa, un Portogallo che potrebbe chiamarsi Grecia, Irlanda, Spagna o Italia, e poco importa se a volte si chiama Baghdad o se i personaggi indossano le scarpe a punta come Aladino. La storia araba è il grembo che tiene unite le storie ed i popoli, il richiamo ad un passato mitico e comune che unisce fin dai tempi dell’Indoeuropeo, un porto sicuro dove attingere e tornare.
L’appiglio al romanzo arabo è anche un pretesto per raccontare le storie spesso improvvisate durante le riprese. Come dice Shahraz?d in una bellissima scena sulla ruota panoramica: “le storie nascono dalle paure e dalle speranze delle uomini e il loro scopo e quello di aiutarci”. Nessuna delle storie raccontate si esime dal preservare nel nucleo un intento politico: così mentre O’ inquieto è l’espressione dei dubbi del regista; O’ desolado la constatazione amara e rassegnata di un presente privo speranza e senza un barlume di giustizia; O’ encantado, ultimo film della saga, è uno scorcio di bellezza e accettazione, una danza e un canto di libertà e spensieratezza. Le numerose novelle, quantunque abbiano come protagonista un gallo, un cagnolino o dei fringuelli, sono sempre storie politiche e rivoluzionarie, incarnazione di un malessere gridato in piazza in mezzo ad una manifestazione operaia.
Nel 1974 anche Pier Paolo Pasolini nel terzo capitolo della sua Trilogia della vita aveva attinto al racconto arabo nel suo Il fiore delle mille e una notte. Prima che il film avesse inizio Pasolini aveva scelto di aprire la pellicola con una frase: “La verità non sta in un solo sogno, ma in molti sogni”. La verità è nella fantasia così come nella finzione, sopravvive alle coordinate di spazio-temporali, soverchia la logica per rimanere oltre le barricate come un gesto rivoluzionario accattivante e maleducato.