New York 2015 / Steve Jobs
Circoscritto il racconto a tre brevi momenti della vista di Steve Jobs, il film di Boyle e Sorkin segue e studia il proprio personaggio come fosse un prodotto in costante fase di aggiornamento.
Cosa succedeva nei cinque minuti che precedevano il lancio di un nuovo prodotto nella vita di Steve Jobs? Nel 1984 prima del lancio di Apple Macintosh; nel 1988 prima di far conoscere al mondo NeXt, e nel 1998 pochi minuti prima della rivoluzione di iMac?
Danny Boyle e Aaron Sorkin hanno deciso di raccontare la vita di Steve Jobs in questi tre momenti, sintetizzando una storia leggendaria nei cinque minuti che precedevano il palco, la platea, la folla incontrollabile e gli occhi del mondo puntati su San Francisco e su di lui. Michael Fassbender/Steve Jobs si muove dietro le quinte dove vecchi amici rancorosi, come Steven Wozniak (Seth Rogen), colleghi colmi di risentimento – uno su tutti John Scully (Jeff Daniels) che dalla Apple lo aveva fatto licenziare – e la madre della sua presunta figlia Lisa, arrivano puntuali uno per uno, ogni volta, per fare i conti con il re della Apple.
Come un ciclo che si ripete, come un conto da saldare prima di un nuovo salto nel vuoto e nella storia. In questo modo, in quei cinque minuti, concitati, strappati, sudati, emerge la difficile personalità dell’uomo. E’ una lotta contro il tempo, dominato soltanto da Johanna Hoffmann, l’unica in grado di tener testa a Steve, sua fedele assistente interpretata da una magnifica Kate Winslet, che rincorre Steve fra corridoi, camerini e sale prove, ricordandogli che il lancio di un nuovo prodotto non può mai avvenire in ritardo. Mentre il mondo si fermava per ascoltare le parole di Jobs, il mondo di Steve lo rincorreva nel backstage, come i fantasmi dell’opera della sua stessa vita.
Non è la storia di un genio, dei suoi fallimenti e del successo, della caduta che precede il volo, non c’è traccia del discorso “Stay foolish, stay hungry”, c’è però tutta quella follia potente che macinava la vita, che travolgeva e divorava, affamata di successo e incapace di contemplare il fallimento, rilanciando e progettando la propria visione in termini universali.
Non il computer per la persona giusta, ma il computer giusto per ogni singola persona, facile, empirico, deduttivo, capace di entrare nelle tasche, di stare in una mano sola. La stessa persona che ha questa visione potente del mondo non riesce a gestire il mondo intorno a lui che minaccia di sgretolarsi di continuo, di accartocciarsi su se stesso, di implodere prima di esplodere sul palco.
Il divario della sua abilità comunicativa è perfettamente riassunto nei tre segmenti del film: paradossalmente il guru della comunicazione non sapeva comunicare con sua figlia, né con le persone attorno a lui. L’essenzialità del racconto rimanda alla concezione che risiede dietro alla stessa filosofia Mac: non ci sono passaggi inutili, tutto è essenziale, rifinito e sofisticato come un oggetto uscito da Cupertino. L’energia di Danny Boyle e la sua capacità di cogliere sfumature potenti, di raccordarle in immagini vive che rimandano ai pixel dello schermo, alle schermate dei nostri computer; la formidabile scrittura di Sorkin, fatta di dialoghi intessuti con astuzia; la colonna sonora di Daniel Pemberton, fanno di questo film un prodotto innovativo, come un nuovo iPhone. Pur essendo l’ennesimo film sulla vita di Steve Jobs, è qualcosa di totalmente diverso, mai visto prima. Un raffinato racconto del tempo che passa, che consuma la vita e ridefinisce le forme, narrato in lunghi piani sequenza che rimandano a Birdman, possibili solo se sorretti da capacità interpretative magistrali.
Michael Fassbender ha ammesso di non sapere molto della vita di Steve Jobs prima di girare il film: “Il mio rapporto con la tecnologia è abbastanza scarso. Non assomiglio molto fisicamente a Steve Jobs, Christian Bale gli assomiglia molto di più. Ma Danny ha detto che voleva la mia l’energia, la forza. Quindi ho iniziato mettendomi le lenti a contatto marroni, e poi alla fine ho indossato anche gli occhiali tondi e il maglioncino nero”. Eccolo rude, spigoloso, intrattabile. Jobs di Fassbender è un conflitto vivente, perfettamente calzante nel suo umorismo incompreso, nella sua incapacità di seguire le dinamiche relazionali.
Dentro il film la tragica fine di Jobs non ha bisogno di essere raccontata perché è già presente negli episodi della sua vita, una lunga serie di cause concatenate che si amplificano e si solidificano attorno alle cose, alle persone, agli oggetti, preannunciando la sua fine prematura.
Quello di Boyle, più che il racconto della biografia di un personaggio storico, è un’opera in sé conclusa, che non necessita del risvolto traumatico della vita stessa. Ciò che non vi è nel film è ciò che già sappiamo; vi è piuttosto l’urgenza di produrre una pellicola originale, dinamica, lucida. Le tre fasi del racconto sono tre versioni dello stesso prodotto, Jobs. Come se il lancio del nuovo oggetto Mac sia in realtà la ripetizione dello stesso sistema innovato, leggermente cambiato, come un update dello stesso sistema operativo.