Il figlio di Saul
Il capolavoro di László Nemes rappresenta mirabilmente le vittime della Shoah come le immagini mancate ai margini dell'inquadratura, ripensando il linguaggio come dialogo straziante tra testi e vuoti
Bisogna sperare che il film d’esordio di László Nemes riceva il maggior numero di premi possibili. È l’unico modo per assegnare visibilità a un’opera che per il tema trattato e la particolare realizzazione si attesta fin dall’inizio come un racconto tremendo, insopportabile, la cui visione sconvolge e atterrisce. Difatti è probabile che Il figlio di Saul sia effettivamente il film sull’Olocausto visivamente più doloroso mai realizzato finora, laddove Shoah di Claude Lanzmann traeva al contrario la sua forza dirompente dalle sole parole dei testimoni: lo statuto visivo su cui è fondata la sua storia interpella direttamente il grande dibattito filosofico e critico inerente la rappresentabilità dal punto di vista morale della tragedia dei campi di concentramento. Fondamentalmente tale rappresentazione è sempre stata basata sui racconti di chi aveva visto e vissuto quell’esperienza, ovvero di chi era riuscito a sopravvivere abbastanza per poter raccontare ciò che sapeva; conosciamo in gran parte ciò che avveniva nei campi grazie alle testimonianze dei sopravvissuti, un numero minimo di persone rispetto al quadro generale dei deportati, motivo per cui Primo Levi avvertì l’esigenza di distinguere chi, come lui, era riemerso (i salvati) dall’orrore, rispetto alla stragrande maggioranza di coloro che vi erano scomparsi per sempre (i sommersi), gli unici a vivere e conoscere fino in fondo, morendo, l’essenza dell’Olocausto.
I sommersi non possono parlare; dunque non è possibile rappresentare ciò che hanno veduto, perché non ne abbiamo alcun racconto diretto. La morte nella camera a gas è il grande tabù visivo del cinema, perché possiamo solo immaginarla, e in questa fantasticheria diventiamo necessariamente spettatori esterni che fissano l’orrore (solo il genere Nazi exploitation ha potuto fare qualcosa di simile, filtrando la gassazione con uno sguardo esplicitamente sessuale e voyeuristico). La legittimità di questa visione esterna è stata ripetutamente dibattuta in qualità di elemento estremo di una rappresentazione dilaniata fra il dovere di raccontare (quindi mostrare), l’incapacità del linguaggio di rendere pienamente quell’esperienza, ma anche la controversa moralità insita nel rendere testuale qualcosa di così orribile da distruggere ogni residuo senso e fiducia dell’umano nel momento stesso in cui viene espresso.
Il figlio di Saul si ferma a metà di questa battaglia fra iconoclastia e iconofilia, toccando come mai prima da vicino gli eventi e i luoghi della camere a gas e dei mattatoi, senza però rompere il tabù. Poiché gli addetti all’accompagnamento, alla spoliazione dei deportati e, dopo la gassazione, alla rimozione e trasporto dei corpi ai forni crematori, erano sadicamente scelti proprio fra alcuni prigionieri ebrei entro unità definite Sonderkommando, raccontare quel mondo significa affidarsi agli occhi di uno di loro. Saul Ausländer sopravvive ad Auschwitz assieme ai suoi compagni separati da tutti gli altri prigionieri, oramai del tutto annichilito e reso indifferente dai propri doveri. In cambio della forzata collaborazione riceve un trattamento leggermente migliore, ma comunque breve, poiché periodicamente le unità vengono eliminate e sostituite al fine di impedire la sopravvivenza di testimoni. Consci del tempo che stringe, i compagni di Saul tentano, in un episodio realmente accaduto, di organizzare quella che è oggi riconosciuta come l’unica rivolta avvenuta nel campo (7 ottobre 1944), mentre allo stesso tempo l’uomo, in principio apatico e inerte, inizia una sua personale e assurda battaglia scaturita dalla visione di un ragazzo, miracolosamente sopravvissuto alla camera a gas giusto il tempo di venire ucciso subito dopo.
In quel ragazzo Saul crede di riconoscere il proprio figlio. Se esso abbia poi veramente un figlio, e se quel corpo vi corrisponda, non è dato sapere e non ha nemmeno importanza: all’improvviso l’uomo decide che non può lasciarlo bruciare con tutti gli altri cadaveri nei forni crematori, ma che deve seppellirlo con tutti i crismi della tradizione ebraica. Ciò significa sottrarre il corpo, trovare un rabbino, perfino abbandonare i compagni, tutto purché almeno quel ragazzo venga tolto alla massa informe di carni straziate e restituito alla terra come persona. Saul, essere umano specifico immerso nel numero confuso dei sommersi, prima brulicanti e poi morti, diviene cinematograficamente il centro dell’inquadratura di László Nemes: un volto distinto - eccezionalmente reso da Géza Röhrig – tutto intorno al quale rimangono, sfocati, i volti e i cadaveri entro i quali Saul non vuole lasciar scomparire l’individualità e il valore del corpo del figlio.
Poiché vivere realmente e pienamente il campo di concentramento significava non solo morire, ma disgregare il proprio essere umani in una distruzione completa dell’umanità, i sommersi non avevano più nome, volto, corpo: erano carne prima brulicante e poi carbonizzata. Il figlio di Saul è il film più vicino a questa amorfa presenza, ma poiché questa presuppone l’assenza dell’umano, la regia di Nemes la propone come non immagine. Intorno a Saul, ai margini dell’inquadratura, sfocate, o espresse solo come suoni – l’esperienza della gassazione viene resa tramite urla strazianti dietro una porta buia – vivono e muoiono i non protagonisti del film, in una costante convivenza fra ciò che è umano, e dunque visibile, e ciò che è stato privato della propria umanità, e dunque non può essere messo a fuoco. Oltre l’immagine cinematografica viene prodotta una seconda immagine cieca, così che l’opera di László Nemes comprende in sé un secondo film che non è possibile vedere, ma solo intuire.
A un certo punto durante la sua ricerca Saul si trova a dover aiutare i compagni nell’effettuare, tramite una macchina fotografica clandestinamente entrata nel campo, scatti dei roghi dei cadaveri: queste quattro immagini realmente scattate, le uniche a mostrare qualcosa di ciò che accadeva nel campo durante e non dopo l’Olocausto, furono ritrovate e mostrare in un’esposizione organizzata del 2001, tra gli altri, dal critico Georges Didi Huberman, al centro di molte polemiche riguardo la legittimità della visione dell’orrore. L’immagine può definire l’esperienza? E definendola, la minimizza? O serve solo a nutrire la pulsione voyeuristica dello spettatore? Ciò che Il figlio di Saul fa fa è ricostituire l’immagine come testo fondamentale ma sempre incompleto, ridando contemporaneamente dignità a ciò che non si vede, sia questo un qualcosa che si è perso prima di essere osservato o, al contrario, che ha finito per costruire la propria identità malferma intorno all’esistere senza essere riconosciuto. Nessun altro film sull’Olocausto aveva mai reso un servizio così prezioso e onesto alle milioni di vittime sommerse dalla storia: mostrandole nella pienezza della loro dolorosa assenza, raccontando più di ogni immagine orribile e traumatica l’offesa della distruzione della natura umana tramite immagini latenti, marginali, mancate; le medesime visioni mancate continuamente rievocate da Lanzmann in Shoah nella calma di un panorama apparentemente dimentico e pacifico.
Costante della cinematografia sul tema dell’Olocausto è l’esigenza del linguaggio, lacerato e così messo a dura prova, di reagire necessariamente al disumano con un residuo di umanità: è un bisogno quasi violento, quello di mostrare in mezzo a tanto orrore un rimasuglio pur minimo di ciò che resta – dobbiamo crederlo – dell’uomo anche nella sua totale negazione, quasi a poter dire che mai completamente, pur con tutto l’odio e la violenza del mondo, si potrà distruggere in tutti gli uomini della terra, in ogni momento della loro vita, quella parvenza di bene che facilmente può sembrare, a guardare la Storia, una pura illusione. Saul si risveglia per un figlio, forse inventato solo per aver un motivo per tornare umano. La sua è in fondo una battaglia fatta solo per amore: sentimento tradotto qui in un film fondamentale che rivela la strenua volontà di un linguaggio, e di una certa idea di Cinema, ostinati nel mantenersi umani malgrado tutto.