Storia di un matrimonio
Autopsia di un discorso amoroso, il più bel film di Noah Baumbach è uno specchio che racconta di noi di fronte al quale è impossibile trattenere l'emozione.
Se è vero che ogni storia d’amore è una storia di fantasmi, è anche perché di quei momenti, emozioni e speranze restano ritagli e brandelli scomposti, ombre spettrali e sfilacciate di anni vissuti per durare che collimano in nuove verità e narrazioni contraddittorie, punti di vista dirompenti, ricostruzioni soggettive che mutano in modi inaspettati davanti a noi, dentro di noi. È dai frammenti del discorso amoroso che parte Storia di un matrimonio (Marriage Story), da due lettere scritte alla persona che amavamo, cercando di ricordare perché e cosa e come. Rievocare, come una seduta spiritica, lo spettro dell’amore passato, per conservare comunque, a discapito di tutto ciò che è cambiato e finito. Iniziare da qui perché a questi racconti dovranno poi seguirne altri, altre narrazioni che saranno via via più affilate, parziali, combattive, ricostruzioni vendicative e strumentali di una guerra processuale combattuta anzitutto sul fronte del racconto, su come presentare l’immagine residua di quella vita costruita assieme. È così che cambiano le versioni e i discorsi, ogni dettaglio confessato, sbaglio ammesso, dimenticanza o leggerezza diventa una nuova arma da brandire per dare corpo al proprio fantasma e negare quello dell’altro, nel campo di battaglia di un tribunale dove ci si litiga alimenti, cessioni economiche, figli. Raccontare l’intimità di un matrimonio attraverso la sua fine è la sfida di Noah Baumbach, una contraddizione solo apparente perché i tempi del conflitto e della separazione sono ancora parti integrali di un rapporto coniugale, prosecuzioni di un sentimento combattute con altri mezzi.
Già nel 2005, con Il calamaro e la balena, Baumbach affrontava il tema del divorzio in maniera autobiografica, ma se allora la prospettiva era quella del figlio che assiste al logorarsi dell’amore tra i genitori, in Storia di un matrimonio al centro dell’indagine sentimentale sono Nicole e Charlie, moglie e marito, lei attrice losangelina che arriva a New York e passa dal cinema al teatro, lui regista teatrale trapiantato a New York e diventato presto più newyorkese di chi v’è nato e cresciuto. Lei solare, socievole, aperta al confronto, lui più introverso ma paziente, disponibile, di certo controllante; sono due emisferi sicuramente artefatti, organizzati in fase di scrittura, ma nonostante la dicotomia tra Los Angeles e New York diventi (nell’ottica della vita dopo il matrimonio e della crescita del figlio Henry) il pomo della discordia e l’epicentro del conflitto processuale, nel corso del racconto Nicole e Charlie vengono mostrati sempre più come persone reali, sfaccettate, vicine a noi in quei bisogni e debolezze che Baumbach riesce a raccontare così bene attraverso lo spettro completo dell’emozione umana, dal momento slapstick all’esplosione di dolore rabbiosa e distruttiva, dalla fitta nostalgica al terrore del vuoto e del futuro. È difficile trattenere l’emozione in questo film così vivo e sincero, autopsia di un amore finito che raccoglie dentro di sé tanti e troppi momenti che in modi e tempi diversi abbiamo tutti attraversato e vissuto. Grazie a questa capacità di universalizzare il discorso senza approdare nel didascalico né perdere in autenticità, Baumbach evita di imbastire il manualetto sentimentale che classifica esperienze prefabbricate e anzi firma il suo film più bello ed emozionante, scene di vita finalmente lontane dalla pretestuosa artificiosità mumblecore e ben più significative, intense, dolorosamente reali. Storia di un matrimonio, secondo film Netflix del regista newyorkese, prosegue infatti sulla scia del già splendido The Meyerowitz Stories e ne rilancia il perfetto equilibrio tra commedia e tragedia, autobiografia e costruzione drammatica. Sorretto da un cast in grandissima forma – Ray Liotta e soprattutto Laura Dern nei panni di due straordinari avvocati divorzisti, Scarlett Johansson e Adam Driver al centro del conflitto e mai così bravi – il film conferma così Baumbach tra i grandi narratori dell’intimismo americano di oggi, cinema indie sicuramente delimitato da confini formali e narrativi ampiamente collaudati ma comunque capace di toccare corde profonde.
Di un film destinato probabilmente a crescere e restare sopravvivono tanti momenti memorabili; ce ne piace ricordare due: la scheggia musical nel locale, in cui Charlie inizia il suo processo di guarigione, e la scena del conflitto in salone, il lungo confronto a due in cui il dolore diventa incontenibile e il peggio inquina, irrompe, si riversa sull’altro, fino all’abbraccio finale, al crollo. È la scena migliore che Baumbach abbia mai girato, di quelle che valgono una carriera.