Nomadica 2015 / Catherine
Dall'archivio Home Movies, una divagazione dolce, sfaldata e labile nella memoria, un tentativo impossibile e tuttavia imprescindibile di fermare il tempo che passa
Nomadica, mostra itinerante per il cinema autonomo è un’iniziativa le cui linee guida sono espresse e messe a punto in un manifesto dagli intenti chiari e precisi, che rimarca una valenza anche politica: costituire uno spazio altro per un cinema che si pone al di fuori delle logiche dell’industria e del mercato, che non aspira a inserirsi nei circuiti istituzionali ma che, al contrario, inscrive la propria essenza profonda e autentica proprio entro una volontaria, consapevole diversità che è anche, in ultimo, una ostinata volontà di non allineamento tanto estetica quanto etica.
La bella cornice di Capo d’Orlando in Sicilia è dunque il teatro, proprio in questi giorni, di una serie di visioni d’eccezione: “un cinema nuovo, svincolato, aperto, soggettivo”, come suggerisce sulle pagine web di Nomadica Giuseppe Spina, regista e direttore della manifestazione, non solo una mostra/rassegna di cinema ma anche e soprattutto un circuito volto a sostenere la ricerca e la sperimentazione cinematografica in ogni sua forma.
Catherine , film di Home Movies a cura di Mirco Santi e Paolo Simoni , si inscrive a pieno nel quadro appena delineato: un cinema ai limiti del cinema, personalissimo e senza compromessi; un cinema-oggetto misterioso impenetrabile, chiuso e compatto come un diamante; una divagazione dolce, sfaldata e labile nella memoria, un tentativo impossibile e tuttavia imprescindibile di fermare il tempo che passa. Le immagini che vediamo sono infatti selezionate da un “corpus di materiali amatoriali orfani e anonimi” 1, filmati che la Home Movies - Archivio Nazionale del Film di Famiglia – raccoglie e custodisce da circa quindici anni. Il filo conduttore che le lega scene e sequenze è il soggetto: Catherine, il volto radioso e il corpo su cui insiste costantemente l’obiettivo, registrando feste e compleanni della sua infanzia negli anni Cinquanta e poi viaggi e vacanze della sua adolescenza, per lasciarla – adulta – negli anni Settanta. Di lei non sappiamo nulla, se non quello che leggiamo attraverso i fotogrammi in super8 e 16 mm, prima in bianco e nero e poi a colori, a volte incerti e tremolanti. Accompagnate da una musica fuori campo quasi sempre traboccante di tensione e inquietudine, in contrasto con l’universo armonioso e sereno che prende forma sullo schermo, queste immagini fanno mostra di sé nella loro nudità, esattamente per quello che sono: ricordi, frammenti di cose vissute e forse dimenticate, forme e colori che evocano luoghi e tempi lontani. Un’incursione in piena regola nell’intimità di una famiglia francese, un privato che diventa visione collettiva e condivisa. Un collage di attimi, ore, giorni. Un objet trouvé dadaista insomma, che nasce come diario visivo personale con il mero scopo di documentare e diventa cinema soltanto in seguito all’azione dei registi, a uno sguardo esterno cioè che sceglie di riconoscerlo come tale. E questa scelta tuttavia non può essere percepita come contingente o forzata se si guarda al cinema nella sua essenza primitiva, se si torna con la mente alla dimensione tutta documentaria, autentica e primigenia dei Lumière che filmano l’arrivo del treno alla stazione di La Ciotat oppure l’uscita degli operai dalle officine di Lione. La potenza fascinosa, lirica e inesauribile di questo tipo di cinema nasce soprattutto dalla sua capacità di testimoniare a tutto tondo, in maniera autentica ed esatta, una dimensione-spazio temporale ormai dissolta. Parafrasando una limpida, incisiva riflessione della Sontag a proposito della fotografia, potremmo dire che con Catherine il cinema è “insieme una pseudopresenza e l’indicazione di una assenza”, poiché è un cinema, questo, fatto “di persone o luoghi lontani, di città remote, di un passato svanito” 2.
1 http://www.nomadica.eu/cdo-31-luglio/
2 Susan Sontag, Sulla fotografia, Einaudi, 2004, Torino, pag. 15