L'albero dei frutti selvatici
Non c’è giudizio nel cinema di Ceylan. C’è solo il problema e il dubbio, intorno a un padre e figlio, lo scontro e la contraddizione: la sua messinscena della natura umana lascia ancora disarmati.
Non c’è mai un giudizio nel cinema di Nuri Bilge Ceylan. Nella sua costruzione, prima ancora dell’immagine, è sottintesa l’estromissione radicale di qualunque pensiero giudicante nei confronti dei personaggi. La loro natura viene esposta, non qualificata. È qui il passo preventivo per cercare la sostanza de L’albero dei frutti selvatici (Ahlat agaci, ovvero Il pero selvatico), ultimo film del turco già magnificato a livello internazionale con molti premi culminati nel 2014 con la Palma d’Oro a Il regno d’inverno (Winter Sleep). Ed è un cinema di profonda derivazione letteraria, per sua scelta intrinseca e dichiarata, che mostra con orgoglio l’ascendenza dalla narrativa classica: Dostoevskij e Tolstoj, anche citato dal protagonista, Anton Čechov, al cui racconto (Mia moglie) era ispirato il film precedente, ma anche Tennessee Williams e le storie brevi di Sait Faik, scrittore nazionale turco che qui “infesta” i tratti di almeno due figure. Attenzione: i nomi in campo, spesso citati da Ceylan, non sono però mera enunciazione di riferimenti, ma colossi saldi e presenti proprio nell’esercizio della pratica narrativa. Per fare solo un esempio, si pensi a L’idiota di Dostoevskij, il nume che più degli altri sembra onnipresente nel dispiegarsi di questo film: una sezione del capolavoro russo, in cui il principe Myškin discute in un lungo dialogo il rapporto tra cattolicesimo e ateismo, si ritrova nel confronto del protagonista con due giovani imam, un’ampia sezione in cui si disserta sull’esistenza di Allah, sull’esigenza di rispettare o modernizzare le scritture. Non può essere un caso.
Sinan (Dogu Dermikol) è un giovane che torna nel suo paese natale, piccolo centro sullo Stretto dei Dardanelli dove sorgeva la mitica Troia (letteratura, ancora). Qui reincontra suo padre Idris (Murat Cemcir), maestro del villaggio, un tempo apprezzato e stimato ma oggi sommerso di debiti a causa del gioco compulsivo. Sulla situazione attuale impossibile sbagliarsi: dal primo episodio narrativo, appena Sinan mette piede nel paese viene apostrofato da un gioielliere che ricorda i debiti paterni. Per il ragazzo quindi non è facile realizzare il suo obiettivo, trovare la somma necessaria per pubblicare il libro che ha scritto, Il pero selvatico: ogni singola lira gli viene richiesta dal padre, per scommettere sui cavalli o sedare i creditori. D’altronde la madre Asuman (Bennu Yildirmlar) è ormai disperata: non sa come sottrarre l’uomo all’abisso in cui si è calato, e allo stesso tempo fatica a mettere insieme la sussistenza della famiglia. A proposito di abissi, Idris sta scavando un pozzo nella tenuta dei nonni: prima o poi troverà l’acqua, sostiene, perché l’acqua c’è a dispetto di tutti che la indicano come terra arida. Il ritorno di Sinan a casa – nel frattempo – si porta dietro un incontro femminile (con Hatice, una magnifica Hazar Ergüçlü), amici di infanzia, figure del passato confluite nel presente. Il suo scopo resta fermo: non vuole fare il maestro in una sperduta regione dell’Est, come suo padre, né il pastore, lui sarà uno scrittore. In realtà, però, non conta eccessivamente soffermarsi sulla successione degli eventi, se non per un particolare: sondare la profondità dei dilemmi, vedere la complessità dei conflitti sul tavolo.
Ama il contrasto irrisolto, Ceylan, perfino quello irrisolvibile. Anche applicandosi a fondo infatti è davvero difficile decidere sui problemi continui che vengono posti, e gradualmente iniziano ad affastellarsi tra loro. Qual è la vera natura del maestro Idris? Un padre e marito irresponsabile, accecato dal gioco e dal proprio interesse, dedito a inutili velleità come scavare un pozzo impossibile? O un uomo che lotta coraggiosamente contro il vizio, per amore di moglie e figli, e l’unico in grado di guardare oltre alla realtà di provincia per comprendere l’arte e la natura? E il figlio Sinan, è davvero un giovane talento della scrittura o un ragazzo incartato nella sopravvalutazione di sé? Domande che vengono sviluppate da Ceylan attraverso la sua tecnica: composizione di macroscene, a cui si aggiungono piani sequenza girati con videocamera mobile (come la discesa degli imam), lunghissimi dialoghi finalizzati all’esposizione di pensieri contrastanti, che si annodano tra loro fino a diventare inestricabili. Problemi su problemi. Dubbi su dubbi.
Un romanzo non si può sintetizzare in una frase, dice Sinan parlando con lo scrittore famoso: ed è esattamente così per la messinscena della natura umana di Ceylan. Questa è sempre più sfaccettata della nostra comprensione: non riassumibile perché inconoscibile, ogni situazione innesca una vertigine, ogni dialogo spinge un problema in un tunnel degli specchi. I nodi si fanno sempre più numerosi e intricati: l’incontro quasi “deoliveriano” con la ragazza all’inizio, che cerca di sfuggire alla tradizione ma poi non compare più, perché si è sposata; la rissa tra amici, l’uno che confessa di invidiare e l’altro che vuole essere invidiato; lo scrittore provocato da Sinan, bollato come intellettuale da cenacolo salvo poi ritrovarlo in vetrina, a dispetto del proprio libro che non ha venduto; gli imam che allestiscono un’alta discussione sulla religione, ma prima rubavano mele; il dialogo struggente tra figlio e madre, che si commuove per il libro ma difende anche il marito sbandato, rivendicando il suo matrimonio («Farei tutto come prima»). E tanto altro.
Come d’uso Ceylan iscrive il racconto nella natura, girando sulla sponda asiatica nella provincia di Canakkale. Al pari dello sfondo stepposo e notturno di C’era una volta in Anatolia, della città di pietra ne Il regno d’inverno, anche qui il paesaggio bucolico, a tratti marino e quasi arcadico, diventa teatro che ospita temi astratti, movimenti dell’animo, rovelli morali. Fino alla fine, dopo l’abbandono e il secondo ritorno di Sinan, quando il confronto più complesso sembra emergere dalla neve («Volevo che la storia si chiudesse in inverno»). Se la strategia dell’autore si conferma e rinnova, però, con L’albero dei frutti selvatici il suo cinema muove un passo in direzione nuova: i 188 minuti disegnano il film più “commerciale” di Ceylan, che in sede di racconto rende il ritmo leggibile, preferisce alla pura costruzione stilistica la forza dell’affabulazione, insomma parla a tutti, resta indecidibile ma è palpitante, inchioda come un thriller morale. Così la sua rappresentazione si sgroviglia, si districa e questo lo rende ancora più rilevante, aumentando la possibilità di toccare un pubblico ampio. Una strada inedita che il cineasta qui intraprende, vedremo dove lo porterà domani. Nell’effetto riscosso, invece, non si muove di un millimetro dai film precedenti. Davanti a Ceylan si resta sempre disarmati: «Ogni cosa che nasconde un padre riappare un giorno nel figlio», dice l’autore, ed ecco lo scivolamento di Sinan verso lo stesso destino di Idris.
Per arrivare a questo, siamo passati per una selva di contraddizioni che ci riguardano: il rapporto tra padre e figlio, sovradeterminato dall’amore ma impossibile da vivere senza ferirsi; la lotta impari contro la propria natura debole e viziosa; la distanza tra ambizione e reale possibilità; la difficoltà a comprendere e accettare un pensiero diverso; la tendenza reciproca a giudicare l’altro; il vero motivo dei nostri gesti, a tratti spontanei e a tratti dettati da rimorsi e sensi di colpa; il dolore di realizzare la sconfitta. Tutto si racchiude in questo film percorso da fremiti di morte, che hanno la forma di sogni: un neonato coperto di formiche, l’incubo di un suicidio. La fine è vicina e sempre possibile. Sinan percorre il film con due ferite sul volto: una è il morso sul labbro dell’amata, l’altra il pugno del rivale. In questa concretizzazione epidermica delle ferite interiori, nel corso del tempo le tumefazioni scompaiono sulla pelle e restano nell’anima. Il simbolo secondo Ceylan: il maggiore regista, oggi, della natura umana.