“La passione ci consacra alla sofferenza,
giacché, in fondo, essa è la ricerca di un impossibile”
Georges Bataille, L’erotismo
An-estetica del desiderio
L’opera di Lars Von Trier non ha nulla di scandaloso. Lo scandalo è la volontà di sovvertire qualcosa o qualcuno; poteva essere così, in forme e con obiettivi diversi, per opere come Idioti o Dogville, ma Nymphomaniacrisulta, invece, una delle sue opere più spontanee, coerenti e viscerali. Quello di di Von Trier è un mondo dove la fiducia è un’illusione che serve a non voler guardare la natura profonda dell’essere umano: violenta, pulsionale, nichilista. Siamo, saremo, tutti colpevoli un giorno del nostro desiderio. Il suo cinema-terapia approda così alla sua forma finale: una (pseudo)seduta analitica tra uno (pseudo)ascoltatore-analista e una (pseudo)paziente. In questa seconda parte, il racconto/confessione di Joe si avvia verso l’abisso. Ci aveva lasciato lì, dove la sua espressione sessuale si era tramutata in anestesia. “Non sento niente”, dice Joe tra le lacrime. La musica nel giradischi si è fermata, la polifonia si interrompe, e qualcosa di più profondo si è congelato. Da questo momento in poi, con qualche forzatura, si può dire che finisce il desiderio e comincia il bisogno. È come il paradosso di Zenone suggerito da Seligman: è la reiterazione infinita della pulsione che ne rende impossibile il soddisfacimento. Nymphomaniac – Volume 2 è necessariamente più scura, più crudele. L’innocenza di Stacy Martin, il suo giocare con gli uomini, lascia pian piano spazio al volto scavato di Charlotte Gainsbourg, emblematico corpo-vittima che deve passare attraverso un calvario per non approdare a nulla: poiché non c’è una meta finale, una morale da acquisire, un riconoscimento. I corpi vengono usati, ridotti alla funzione di mezzi. Lì dove il discorso sembra avvicinarsi alla mercificazione del corpo, al dominio e al potere della poetica del Pasolini di Salò, in realtà se ne allontana poi radicalmente. Perché in Nymphomaniac il potere e il dominio non sono gerarchizzati, non sono da un alto verso il basso, ma sono onnipervasivi. Non c’è un vero rapporto di soggetto a oggetto, ma tutti sono possibili o futuri oggetti dell’altro. Non c’è nessuna soluzione, nessuna utopia rivoluzionaria in grado di rompere questo caos che giace al fondo della socialità umana. È così, ad esempio, per il feroce personaggio di Mia Goth (al suo splendido esordio), perfetta lolita vontrieriana, che in questo caos è cresciuta fin da bambina e ne conosce meglio di Joe le sfumature e le prospettive; è così per il prevedibile ma necessario finale.
Schermo nero, narrazione e analisi
In questa seconda parte viene data più coerenza e solidità e si comprendono alcuni meccanismi su cui il film è costruito. Formalmente non cambia il modello narrativo: ci sono le metafore, le analogie intellettuali, e l’umorismo nero di cui abbiamo avuto cenno nella prima parte. Solo, capiamo che Von Trier non sta giocando. Quello che sembrava un rapporto a due tra Seligman e Joe, questa sorta di racconto/confessione/memoir, si allarga fino ad interpellare segretamente lo spettatore. Individuando nella verginità di Seligman quella (apparente) neutralità e distacco richiesto per ascoltare una storia di questo genere, in realtà Joe sembra chiedere allo spettatore stesso se è in grado di ascoltare e comprendere la vicenda; se è in grado, cioè, di non far prevalere la propria pulsionalità nel guardare questa affabulatoria galleria di esplicita nudità, e comprenderla realmente, cogliendone la disperazione, la solitudine e l’anarchia di fondo. È in grado lo spettatore di non fermarsi allo scandalo del sesso mostrato nella sua crudità e nelle sue perversioni? Ai divertissement? Riusciamo veramente a vedere la storia di Joe mentre siamo inondati da primi piani su organi genitali, penetrazioni, liquidi, feticismi? Lo spettatore viene invitato a mettersi a nudo egli stesso, e a guardare il proprio lato oscuro. Se si vuole, è qui che va cercata la provocazione. Non c’è porno. O meglio: l’elemento pornografico, e cioè l’immagine immediata, emblema della morte del desiderio, viene riarticolata all’interno del cinema-terapia di Von Trier. Si viene a creare un vero e proprio cortocircuito tra l’immediatezza dell’immagine pornografica, che si dà nella sua piena presenza di oggetto di consumo e l’immagine cinematografica, necessariamente intermediale, sempre in funzione di rimando ad altro (orizzonte di senso, emotivo o quant’altro), e quindi inesauribile. In questo secondo volume, il rapporto dall’alto verso il basso tra il regista e lo spettatore viene scardinato, mostrando le intenzioni di Von Trier. È qui che il suo apparente didascalismo viene sconfessato: nel momento in cui diventa una seduta di analisi collettiva, che si sviluppa negli angoli della narrazione a due tra Joe e Seligman aprendosi verso il pubblico che viene implicitamente chiamato in causa. Sono i ruoli e i rapporti stessi a farsi sfumati. Non abbiamo nemmeno la certezza che il racconto di Joe sia veritiero. Lo stesso Seligman, perdendosi nelle sue fascinazioni, sembra non capire, rivelandosi progressivamente quanto di più lontano dal ruolo di ascoltatore ideale con cui si era qualificato, fino a diventare, forse, personaggio della storia; mentre la narrazione si ripiega su se stessa, trasfigurandosi in analisi e viceversa . La stessa nozione di vittima perde i contorni: tutti sono vittima e carnefice allo stesso tempo; e lo stesso spettatore viene investito dal dubbio sulla propria innocenza.
Solo una catastrofe ci può salvare
Come il pianto della natura di Antichrist, ogni essere conserva latente il suo potenziale violento che si estrinseca principalmente nella sessualità. “La sessualità è la più grande forza negli esseri umani”, dice Joe; e come nel controverso e radicale discorso sul pedofilo, l’encomio, se proprio ci deve essere, è nel non lasciar esplodere questo potenziale; o, in altre parole, nel non essere se stessi. L’essenza dell’essere umano viene ricondotta alla sua carnalità, e non è un caso che nel finale venga rimessa in questione la figura di Seligman. Progressivamente vengono annullati, quindi, tutti i possibili dualismi dominante/dominato, prostituta/vergine… Con Nymphomaniac, Von Trier aggiunge un tassello importante alla sua trilogia del dolore, che idealmente vedrebbe Melancholia come conclusione catastrofica e necessaria per una umanità intrinsecamente e irrimediabilmente malvagia. Anche qui vi sono i suoi giochi d’autore, la sua ironia fastidiosa, ma, soprattutto in questo secondo volume, questi elementi sono collocati in un’atmosfera ancora più cupa e nichilista della prima parte. La visione apocalittica di Von Trier ha la consapevolezza che non vi può essere più riconciliazione con la natura. E se il film dev’essere pensato come un’opera unica, allora, quello di Nymphomaniac è un lento e lungo cammino verso il nulla in cui ogni domanda di senso, ogni speranza nel prossimo viene cancellata via dall’impulso cieco che giace al fondo di tutto.