La casa di Jack

di Lars Von Trier

La casa di Jack, ovvero l’impossibilità della scala dei grigi

La casa di Jack, Lars Von Trier

«Lo scopo finale dell’assassinio considerato come un’arte è precisamente lo stesso di quello secondo aristotile, cioè “purificare il cuore dalla pietà o dal terrore”. Ora, se ci può essere terrore, come potrebbe esserci pietà alcuna davanti a una tigre distrutta da un’altra tigre?» Thomas De Quincey – L’assassinio come una delle belle arti

Egocentrismo, volgarità, maleducazione, impulsività, narcisismo, intelligenza, irrazionalità, sessismo. Aggettivi tutti associati ed associabili a Lars Von Trier. Ed invece no, o meglio, non solo, anche cartelli diegetici in seguenza esposti da Jack durante uno dei vari siparietti brechtiani di intermezzo tra un capitolo e l’altro, tra un omicidio ed un altro. La confessione psicanalitica di uno psicopatico che coincide con la confessione di un regista sociopatico. La strada di Jack\Lars non porta in nessun girone infernale, non presuppone stasi, punizione, pentimento, per loro vale la regola dell’assoluto, o tutto o niente ( o capolavoro o nefandezza), o salvezza o dannazione, o l’inferno lo si raggira o si scivola nel gorgo di lava e fiamme. L’amato\odiato\censurato\respinto\adorato La casa di Jack è il film di arrivo di un regista che vuole metaforizzare il suo cinema. Prodotto metacinematografico nella sua valenza artisticamente autobiografica, nel suo incedere saggistico, nella sua espressività che rasenta l’elzeviro, Lars e il suo doppelgänger Jack formano un due associativo che cammina su uno stesso percorso di sincera dannazione. Nella metafora del lampione si sintetizza tutta la necessità di cinema del regista danese. Una necessità patologica, un bisogno irresistibile che porta Jack all’omicidio e Lars alla regia. Piacere e dolore, bipolarismo manicheo che restringe la trinità del bisogno, e della solitudine, definita in Nymphomaniac dal Cantus Firmus. Le tre voci: la voce bassa (il rituale), la voce mancina (il desiderio), la voce destra nonché l'ingrediente segreto (l'amore) si riducono a due: Jack e Lars. Il sangue e lo stile. Dualismo che potremmo ridurre all’immagine dell’uomo che avanza tra un lampione e l’altro, dove l’ombra che precede e decresce e l’ombra che segue e cresce sono dapprima uno e poi l’altro, il suo doppio e il suo simile. Come se nel movimento Dottor Jekyll venisse consumato da Mister Hyde, se William Wilson venisse assorbito da William Wilson, se Peter Schlemihl non riuscisse più a scrollarsi di dosso l’ombra perduta, se il narratore di Maupassant venisse risucchiato dalla Horla, e tutti, allo zenit di luce, al passaggio perpendicolare sotto al nuovo, e raggiunto, lampione si unissero e sentissero il bisogno di agire\creare. Un atto (un omicidio? Un film? Un libro?) che riesca a muovere il bisogno verso l’appagamento per far rinascere il desiderio. Una strada perversa nel piacere inconfessabile. Un percorso nell’arte e nell’arte dell’omicidio, nella bellezza del gesto affilato, nello stile che si sporca di sangue. Lars Von Trier dirige il film come se ripulisse, ossessivamente e compulsivamente, una scena del crimine. Questa necessità di intagliare il suo cinema nel carbonio, cristallizzandolo in un reticolo tetraedico, è parte dell’insicurezza del solitario, del vagabondo, del pazzo prima ancora di diventare artefice, prima di diventare bagatto, questa sua disposizione a non lasciare sfuggire nulla al suo controllo è una casa claustrofobica fin troppo definita dal suo carattere spigoloso, una struttura ad angoli acuti, taglienti, che non traspira aria cinematografica, fluidità imprevista, libertà espressiva, ma che restringe dentro ad una forma adamantina, dentro ad un pensiero senza compromessi: il suo e di nessun altro. Ed è proprio questo il limite di Von Trier ed il limite di Jack: il troppo controllo. La stessa patologica ossessione che farà tornare più e più volte Mr Sofistication sulla scena del crimine rischiando di essere catturato. La stessa ossessione per il materiale, mattoni, legno, corpi umani, una casa cinematografica di corpi che apre la porta verso l’inferno dantesco. E torna ad essere l’arte il contrappunto necessario per rappresentare un atto artistico, per tratteggiare un’impalcatura di sangue e tessuti organici. Lars, il narcisista, Jack, l’egocentrico e l’impulsivo, avanzano nella (e tra) la ragione, la diplomazia, la comprensione, l’ascolto di un traghettatore (Bruno Ganz nella sua ultima apparizione), Verge, mediatore tra gli istinti e le passioni, medicina curativa, entità betabloccante. Luce splendente e contraltare simbolico alla dark light, al negativo fotografico che orienta lo sguardo verso l’oscurità, verso la strada poco battuta e laterale, verso la provocazione, l’idealismo sfrontato, la sincerità brutale di un carattere cinematografico (Lars) ed incarnato (Jack) a cui non importa nulla del giudizio dello spettatore, nonostante tenti in tutti i modi di farsi notare. Dalla parabola della tigre e dell’agnello di Blake alla famosa tela di Delacroix, passando per le variazioni di Glenn Gould – perché il cinema di Von Trier è anche e soprattutto questo, è variazione intorno ad uno stesso tema (povero Jorgen Leth!) - le immagini e gli intrecci apodittici percorrono una dimostrazione dell’artisticità, o meglio della creatività, come fenomeno che, per l’istinto di Jack\Lars, deriva dalla putrefazione, dal nettare del creato. Ma la dialettica presuppone l’intervento sempre della ragione a ricordare che non c’è arte se non c’è amore. Distruzione cinica dell’artista e cinetica sentimentale che si danno battaglia a sei piedi sotto terra. Pensare alla tigre come ad un aspetto fondante di un processo necessario all’elevazione della vittima (l’agnello) ad arte, divina ed imperitura; contestare la religione per la sua funzione consapevole di oppiaceo per l’istinto, palliativo alla naturale ciclicità tra vittima e carnefice; o vedere nello Stuka (La tromba di Jeriko) un sadico capolavoro, nonché ragionare sulla bellezza presistente (L’albero di Goethe) nel terrore e nella tragedia di Buchenwald, similitudine forte ed ampiamente spiazzante di una concezione taoista dell’esistenza, più che le innumerevoli scene di violenza, sono queste le tematiche, esposte in maniera così manichea e netta, che potrebbero non far accettare la visione da parte di una buona fetta di pubblico. Ma d'altronde questo è Lars Von Trier, prendere o lasciare, un regista che in ogni film esprime sempre (e con estrema sincerità e lucidità) la sua, accettabile o ripugnante, filosofia esistenziale. Non ci possono essere scale di grigi in una personalità che crede di essere il creatore ed il distruttore dell’icona, l’anticristo del cinema contemporaneo, l’anticristo del canone comune, l’anticristo dello sguardo libero; inflessibile, antipatico, l’eretico per eccellenza (e per scelta consapevole).

Autore: Giorgio Sedona
Pubblicato il 01/03/2019
Danimarca, Francia, Germania, Svezia
Durata: 155 minuti

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