“È un tempio la Natura, dove a volte parole
escono confuse da viventi pilastri
e che l’uomo attraversa tra foreste di simboli
che gli lanciano occhiate familiari”
(Charles Baudelaire, I fiori del male)
Se si dovesse collocare Lech Majewski all’interno del magma del cinema contemporaneo si incontrerebbero diverse difficoltà: si tratta di un fuori gioco, di un nome troppo spesso dimenticato ma invece tutelare, fondamentale per quella sorta di digitalizzazione progressiva del mondo delle immagini e del pensiero. Con Onirica – Field of Dogs chiude quella trilogia dell’arte preceduta da Il giardino delle delizie e I colori della passione regalandoci così un manifesto di convergenza, un’idea di cinema radicale e coerentissimo. Per Majewski fare cinema significa prima di tutto parlare d’altro, o meglio, parlare dell’uomo, interrogarsi sul suo destino, sul suo ruolo nel mondo, sul suo rapporto con l’alterità. Ma d’altronde se l’immagine in Majewski è un corpo modellabile, digitalizzabile, estremamente plastico, così lo saranno i suoi personaggi, che vivono gli spazi interni come moltiplicatori libidinali del mondo esterno. Il suo sguardo, in Onirica più che mai, intelaia un dialogo che, da solo, è in grado di oltrepassare il tempo: le risposte possono venire solo dai grandi maestri del passato, dalle opere di ieri che continuano a indicarci la via.
Il protagonista di questo viaggio è Adam, ex professore devastato da un incidente che gli ha portato via la compagna e il migliore amico. La selva oscura che affronta quotidianamente è quello stesso supermercato in cui si è trovato a lavorare. Sprofondando in un mondo privo di valori – e dimentico del passato – Adam attraversa la città in preda a crisi narcolettiche e, nella confusione tra sonno e veglia, trasfigura il mondo che lo circonda. Tra strade notturne, chiese silenziose, metropolitane e parchi, sedotto, ma mai abbandonato, da logiche capitalistiche e televisive, da bordelli virtuali e non-luoghi che caratterizzano il vigente, Adam si addormenta ovunque. Mentre erra in un labirinto criptico e oscuro, ogni sua visione diviene il tassello di un puzzle composto d’infiniti rimandi. Le tragedie di una Polonia sempre più devastata da catastrofi politiche e naturali vengono riflesse in questo mondo interiore, narrato ma mai illustrato dalle parole di Dante. La realtà diviene così una foresta di simboli e allegorie, un microcosmo da vivere e decifrare continuamente. Majewski, che non ha paura di osare, costruisce il suo film più radicale come un itinerario mnemonico (un altro, clamoroso labirinto della mente) e utilizza il digitale per modellare le sue fantasie, restituendo ogni immagine alla propria matrice d’immaginario. Come a dire: ogni forma, ogni figura, ogni geometria è un varco aperto, esposto a infiniti orizzonti di senso, plasmabile come se fosse una coreografia dell’anima, un rebus intellettuale, estetico oltre che estatico (da Heidegger al problema della teodicea: solo la cultura permette di uscire da se stessi). Ancora di più: ogni immagine è la trascrizione visiva di un’Idea in grado di aprirsi all’assoluto. Non c’è particolare che non disveli un mondo interno di pensieri e tradizioni: quel cuore strappato, solitario, rinchiuso ma ancora palpitante, si profila come immagine-destino prima ancora che come immagine-uomo (e apre le porte all’inferno – o al paradiso – della creazione, così come lo faceva l’inquietante e horrendum homunculus nel Faust di Sokurov). Perché oltre a essere una mappa di racconti, Onirica si rivela una dolente, disperata, straordinaria storia d’amore che supera la morte e guarda costantemente verso un aldilà indefinito.
Contro qualsiasi specifico filmico, in un terreno di pura esperienza sinestetica, Majewski è riuscito, paradossalmente, a riscoprire il cinema come illusione e nostalgia dell’illusione. Ecco allora che la sua immagine assume la funzione di un ponte che collega tempi e spazi diversi, come per effetto di una memoria involontaria che riporta sempre l’individuo all’universale, l’uno al tutto: anamnesi totalizzante e terapeutica per lo spettatore stesso. Se pensiamo a Onirica come a un film che inscena il sentimento della perdita (sia in senso luttuoso sia in senso di mancanza di telos) allora ci rendiamo conto di come Majewski proceda a risollevare quella perdita, a contorcerla, a lavorarla come fa un artigiano, e infine a lavarla, a purificarla (la tempesta d’acqua santa che invade la chiesa e redime gli occhi e il cuore dello spettatore). Se prima il regista dialogava con Bosch e il Giardino delle delizie, se poi faceva muovere i personaggi all’interno della Salita al Calvario di Bruegel, adesso ribalta i suoi tableaux vivants in un continuo meccanismo di trasfigurazione: non dona più movimento e tempo alla pittura, ma fa slittare il cinema verso una composizione pittorica, fa del film un quadro in movimento e non più del quadro un film. Inscena la stasi scultorea della figura bidimensionale per lasciare muovere in profondità la macchina da presa che, a sua volta, avanza fluida ed elegante in carrellate laterali. I personaggi perdono la loro mobilità per trasformarsi in antiche statuine, in figure di cui cogliamo l’essenza archetipica e iconica. L’effetto è straniante e fa pensare più volte al connazionale Zbigniew Rybczy?ski e a tutta la sua incredibile sperimentazione visiva che, indagando le superfici delle immagini, scopre un cinema che è, prima di tutto, atto di guardare con i propri occhi.
Pittura, teatro, scrittura, danza sono soggetti a un’unica coreografia, che è quella del percorso interiore, della ricerca di senso e della propria Beatrice. Ecco perché questa volta il medium da utilizzare non poteva che essere quella Divina Commedia che diviene polo emotivo e sentimentale, geografia di un’anima dispersa all’interno di quell’Inferno che è il nostro mondo. Oggetto filmico troppo complesso e troppo raffinato per poter essere analizzato, Onirica rimane una miracolosa esperienza di visione, che non ha paura del ridicolo, anzi, lo affronta sprezzante di qualsiasi rischio: coppie di buoi che arano il pavimento di un supermercato, angeli che camminano lungo i parchi, figure che si librano in aria attratte da una forza irresistibile ed ascensiva, misteri antichi quanto il pensiero. Il punto è questo: non esiste ordine senza disordine, non esiste luce senza oscurità. In un mondo sempre più manicheo e binario, Majewski va in controtendenza, spalanca le porte del cinema e riesce nell’impresa più difficile: il ritorno della poesia. Questo, d’altronde, è cinema che (ci) scopre.