Open Windows
Dal regista di Los Cronocrimenes, un thriller sulla contemporaneità che lavora sul ruolo e sul significato delle immagini
L’immagine, anno zero. Sarà interessante ritrovarci qui tra dieci anni, e riflettere a posteriori su quanto fatto e quanto visto adesso, in questi momenti così concitati e frenetici dal punto di vista della rappresentazione visiva di quanto ci circonda. E non è un aspetto che riguarda solamente il cinema, perché di immagini ci nutriamo ogni giorno, sempre più, senza quasi accorgercene. Piuttosto, il cinema cerca (disperatamente?) di stare al passo con i tempi, di non rimanere indietro rispetto a un avanzare che assume ormai i toni dell’invasione barbarica. Come si può pensare ancora alla forma film, mentre chiunque oggi è in grado di diffondere immagini video attraverso il proprio cellulare? Come si può comunicare attraverso una qualsivoglia forma artistica, se i social network annullano le distanze da un capo all’altro del pianeta al suono di un semplice click sulla tastiera? Interrogativi e questioni da conferenza accademica sul ruolo dei mass-media, è vero, ma con i quali qualsiasi cineasta, oggi, è costretto a venire a patti. E non è certamente un caso se il mockumentary, o found footage che dir si voglia, si sia rivelato uno dei sottogeneri più abusati, al di là delle ovvie motivazioni commerciali (le quali hanno contribuito ben presto a prosciugarne la portata del discorso dialettico, con poche ma significative eccezioni).
Ecco, un film come Open Windows sembra arrivare al momento giusto, ponendosi come titolo spartiacque di una metodologia del lavoro sull’immagine che prosegue e fa proprie le riflessioni di illustri predecessori: il Brian De Palma dell’incredibilmente sottovalutato Passion, ad esempio, bellissimo tassello finale – per ora – di una carriera da sempre votata alla sperimentazione e alla ricerca di nuove forme espressive in grado di rappresentare la manipolazione a 24 fotogrammi al secondo; o ancora, perché no, il Romero di Diary of the Dead, pietra tombale del controcampo e quindi accettazione – tragica, definitiva – dell’inafferrabilità del reale. Open Windows riparte da qui, dalle nuove tecnologie e dalla moltiplicazione di punti di vista, per cercare di andare ancora oltre, se possibile: oltre il found footage, oltre la sperimentazione, oltre il cinema stesso. Il regista e sceneggiatore Nacho Vigalondo ( Los Cronocrimenes, Extraterrestrial) costruisce un intreccio di intrighi e misteri intorno alla figura dell’attrice Jill Goddard, star in ascesa che viene presa di mira da un misterioso hacker, Chord. Costui convince il giovane fan Nick, gestore di uno dei più importanti siti internet dedicati alla giovane donna, a spiarla attraverso una connessione diretta con il suo pc. Ben presto il ragazzo scoprirà di essere rimasto coinvolto in un intrigo molto più grande di lui, e dove niente è davvero quello che sembra.
Vigalondo trasforma lo schermo cinematografico nel monitor di un computer, nel quale l’immagine balza repentinamente da una situazione all’altra: tutta la vicenda viene rappresentata attraverso l’alternanza di webcam, telefoni cellulari, telecamere di sorveglianza e così via, reinventando continuamente gli spazi e i set per impedire allo spettatore di capire fino in fondo cosa stia davvero accadendo. Se all’inizio tutto sembra lasciare presagire un esercizio di stile teorico e freddo, ben presto Open Windows comincia a rivelarsi come una rappresentazione lucidissima del ruolo (e della responsabilità) dello sguardo nel magma caotico della contemporaneità. Azzerandosi in continuazione, ripartendo da zero, rimescolando le carte in tavola per sottolineare lo scacco cognitivo che sta alla base di questo mondo, il nostro: dove si esiste in funzione di come e quanto si è in grado di vedere, e in cui l’unica forma di sopravvivenza possibile diventa… lo sparire. Il togliersi la maschera (letteralmente) e rinnegare persino il proprio corpo, materia inorganica e fredda dalla quale distaccarsi se si vuole rinascere davvero. Perché l’occhio è l’unica cosa che conta, assassino e salvatore, e tutto il resto è solamente sceneggiatura e finzione, in cui nulla è reale, nemmeno la carne; e alla fine questa carne è persino rimodellabile, visibile solamente attraverso l’evoluzione dello sguardo, quasi attraverso una stampante in 3D, come suggerisce la sequenza all’interno del bagagliaio. Un incredibile thriller sulla contemporaneità, reso ancora più attuale e reale dai leak delle celebrità che stanno scuotendo il web (e vedendo il film è facilmente comprensibile il motivo), nel quale la presenza di un corpo come quello di Sasha Grey non è elemento decorativo bensì la dimostrazione della consapevolezza di un discorso sul significato dell’immagine che lascia inesorabilmente sbalorditi.