Mandy
Cosmatos mette in scena un revenge movie dall'anima metal e lisergica a perfetta misura di un Nicolas Cage mai così sopra le righe.
Se c'è qualcosa che la parabola artistica di Nicolas Cage ci ha insegnato in questi anni, è che il protagonista di Cuore selvaggio e Via da Las Vegas è un interprete da maneggiare con cura, una scheggia impazzita e imprevedibile capace di dare il meglio (o il peggio, a seconda dei punti di vista) di sé proprio nei ruoli più eccessivi e nei prodotti più respingenti e disturbanti.
È proprio qui che entra in scena Mandy di Panos Cosmatos (presentato alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes nel 2018 e da noi, dopo un passaggio al Torino Film Festival, uscito direttamente su Amazon Prime), un trionfo dell'eccesso capace di assecondare la schizofrenia interpretativa del suo protagonista, costruendogli attorno un universo folle e allucinato perfettamente in linea col suo corpo attoriale impazzito. Sì, perché eccessivo, Mandy, lo è di certo, a partire dai suoi stessi presupposti, da quell'incipit lento e soporifero fatto di ralenti, sovrimpressioni e dissolvenze incrociate che colora di tinte lisergiche l'intera vicenda, proiettando protagonisti (il Red di Cage e la Mandy di Andrea Riseborough, coppia di innamorati destinata a vedere il suo idillio distrutto da una setta deviata) e spettatori in un bad trip da LSD sempre più assurdo e brutale, fino a esplodere in un'escalation di violenza anarchica e insensata.
Alla sua opera seconda, il regista greco-canadese (figlio di George Pan Cosmatos e formatosi proprio sui set del padre), pare così dare vita a un intero immaginario compresso a stento in due ore di film, un'opera estremamente derivativa in cui tutti gli ingredienti del genere – dalla casa nel bosco ai culti misterici, dalla violenza splatter e immotivata alle degenerazioni demoniache – paiono confluire e prendere posto alla rinfusa, con sprezzo di qualsivoglia ordine e verisimiglianza, in un crescendo di follia che insegue la sete di vendetta del suo protagonista.
Ed è proprio lui, Red/Cage, impegnato a ubriacarsi disperato in un bagno con una bottiglia di vodka o a fabbricarsi da sé armi bianche per combattere una setta di hippy impazziti, l'elemento più perturbante di tutti, l'essenza stessa di un film fatto a sua immagine e somiglianza, capace di adombrare qualsiasi altra presenza di quel circo di freaks popolato da nemesi mansoniane (l'inquietante Linus Roache), tigri in gabbia e demoni motorizzati che paiono usciti da Hellraiser, fino a oscurare persino l'estetica stessa di un mondo sempre più simile a un fantasy crepuscolare e distorto.
Tra echi di Sam Raimi e Jodorowsky e immagini saccheggiate da Le streghe di Salem e Valhalla Rising, Cosmatos mette così in scena un gioco al massacro respingente e affascinante al tempo stesso, tanto assurdo quanto estremamente compiaciuto, una sinfonia metal (cadenzata dall'evocativa e bellissima colonna sonora del compianto Jóhann Jóhannsson) che, però, al di là di ogni invenzione provocatoria, oltre la sua aura (programmaticamente) maledetta e ipnotica da delirio allucinato, resta soprattutto il tributo definitivo alla maschera di un interprete divenuto ormai la parodia di se stesso, una presenza estrema come il mondo e la materia in cui è immersa fino al collo, e a cui aderisce alla perfezione. Ennesimo, forse definitivo tassello di una carriera vissuta, sempre e comunque, sopra le righe.