E chi se lo sarebbe mai aspettato che Nils, cittadino dell’anno in un piccolo villaggio norvegese, si sarebbe rivelato un killer efferato e formidabile, un giustiziere improvvisato che, da solo, dichiara guerra alla malavita norvegese? Il contrasto funziona sia a livello visivo che narrativo: Nils lavora su uno spazzaneve e vaga lungo cime innevate e paesaggi desertici, ma ben presto, quando suo figlio verrà ucciso, il biancore della neve verrà sostituito dal sangue dei carnefici. La parola d’ordine è sempre e comunque una sola: vendetta.
La ricetta di In ordine di sparizione è semplice e schematica: prendere il giallo nordico nella sua chiave più internazionale, debellarne la componente drammatica e infine annettervi gli umori acidi della commedia nera con echi pulp, strizzando l’occhio a derive tarantiniane-coeniane o, forse ancor di più, kitaniane. Quello che ne viene fuori è un’operazione ironica e grottesca, che se fosse uscita almeno dieci anni fa avrebbe cavalcato l’onda modaiola di tanti titoli simili, ma che oggi si rivela perfino in ritardo sui tempi. Come una sorta di post-scriptum a un postmodernismo d’antan che ormai ha fatto epoca, il film porta a saturazione ogni possibile contrappunto. Ma ciò che rende interessante In ordine di sparizione è il suo vero, gelido protagonista: la Norvegia con i suoi freddi paesaggi innevati, le sue distese incolte e sublimi, le sue montagne che vorrebbero toccare il cielo ma che rimangono incastrate nelle tragicommedie umane. Il paesaggio – qui più che mai – diviene l’autentico plus dell’opera, epicentro vincente e inatteso per un revenge movie come questo. Il microcosmo del villaggio diviene tanto più interessante quanto più è lontano dalla società. Quando infatti Hans Petter Moland lascia perdere la trama e si concentra sul conflitto tra personaggio e ambiente circostante, produce piccoli momenti di grande cinema, capace di prendersi i suoi tempi, di instaurare un dialogo tra uomo e natura. In realtà l’intero film sembra sottintendere quello che è il suo tema più interessante: di fronte all’assoluta vastità di quel mondo i conflitti umani, perfino quelli più gravosi, assumono le sembianze del gioco innocuo di bambini capricciosi, dove la vita è futile quanto la morte. Se l’orizzonte si apre alle linee orizzontali di strade infinite e a quelle verticali delle montagne, ciò che ne viene fuori è un piacevole film-croce. L’intera opera, infatti, si delinea attraverso una numerosa serie di capitoli inaugurati da uno schermo nero con croce e nome del defunto. E, del resto, ci sono tantissimi morti nel film.
La malavita norvegese (ma anche la banda di serbi) viene disegnata come un’accozzaglia di criminalotti fuori tempo massimo, dove i concetti di orgoglio e onore appaiono così anacronistici, così idioti e chiusi in se stessi, da far sorridere. Se l’operazione insegue la stilizzazione visiva e psicologica, ne consegue che il supercattivo sia il personaggio bidimensionale di un fumetto, a volte perfino eccessivo – seppur lecitamente – nel suo gigioneggiare per tutta la durata del film. E il protagonista, il grande Stellan Skarsgård è l’ennesima incarnazione dell’uomo comune che si mette la maschera da giustiziere, così normale da essere imprevedibile agli occhi dei suoi nemici. Di sicuro, per la sua innata signorilità e per il gelo dei suoi occhi, Skarsgård riesce a distanziarsi dai vari eroi da revenge-movie in stile Liam Neeson, debellandone volgarità visiva ed esiti trasheggianti. Certo alle lunghe il meccanismo rischia di stancare sulla base della sua prevedibilità, come fosse una struttura in serie che non ci risparmia siparietti, citazioni, frecciatine e dialoghi non-senseche sembrano usciti da un film di Guy Ritchie. Anche a livello narrativo la sceneggiatura presenta dei buchi e delle omissioni non da poco: su tutti il personaggio della moglie di Nils che scompare letteralmente, senza nessun approfondimento ulteriore. D’altra parte vedere il grande Bruno Ganz seduto accanto a Stellan Skarsgård su uno spazzaneve, ripaga di ogni piccola noia e minuto perso.