Orecchie
Un precario professore di filosofia racchiuso in una realtà aliena di piccolo formato
Una giornata di un precario professore di filosofia inizia al mattino con un fastidioso fischio ad un orecchio ed un bigliettino dove dalla compagna gli viene annunciata la morte di un suo amico di scuola che non riesce proprio a ricordare. Alessandro Aronadio alla sua opera seconda realizza una commedia agrodolce che prende spunto dall’esistenzialismo camusiano per trasformarsi poi in una cavalcata surreale, racchiusa nell’arco di una giornata, dentro ad una Roma periferica di pirandelliana memoria. Orecchie si struttura su una parte specifica della letteratura italiana del ’900, quella capace di sollevare un quesito sul mondo che circonda personaggi integrati ed alienati attraverso una sensazione di disagio, usando personaggi grotteschi presi in prestito dal nostro surrealismo quotidiano. Per certi versi il fischio potrebbe essere tranquillamente paragonato a qull’incapacità di riconoscimento che il protagonista de La carriola arriva ad avere di fronte alla targa del suo studio. Lo svolgimento della trama assume dei contorni stranianti, anzi "stranieri", come l’opera di Camus che sta alla base del film ed enunciata dal rapper di Torpignattara. Il fischio all’orecchio è figlio legittimo dell’Italia e dell’italiano, è l’inizio di una presa di coscienza, motore questo di una narrazione che arriva ad acciuffare un senso solo se cercato nel quotidiano e nel sociale. E’ cugino del fischio al naso ripreso da Tognazzi nel 1967 e tratto da un racconto di Dino Buzzati. E’ proprio lo scrittore Veneto, riconosciuto da alcuni come il Kafka italiano, a risultare il più simile nell’approccio delle caratterizzazioni e alle tematiche espresse dal film di Aronadio. L’alienazione del professore è la caratteristica di un malfunzionamento dell’organismo in uno stato di apatia e frustrazione, quindi una spia o un fischio, che si accende lì dove la solitudine, l’incomprensione ed il male di vivere depositano le scorie di una razionalità incapace di accettare la follia che la circonda. E’ proprio nella consapevolezza che nasce sulla realtà e sui suoi personaggi, sul cambio di punto di vista che diventa lo strumento necessario per essere felici tra gli altri, che l’opera di Aronadio opera. Il lavoro che il regista compie sul materiale filmico è altresì interessante. Il suo sperimentalismo gli permette di giocare con il formato rendendolo partecipe dell’evoluzione dello stato di coscienza del suo protagonista. Se il formato era una gabbia entro la quale far vivere asfissiati i personaggi di Dolan (Mommy) lasciando a loro stessi la scelta della forzatura del formato video, inteso come apertura verso la felicità dell’esistenza e verso altri, e larghi, orizzonti in 16:9; in Orecchie, al risveglio del professore non è tanto il fischio che solo lui sente (e che noi sentiamo solo nel finale) a veicolare a noi spettatori la sua cronica alienazione ma la chiusura – e la progressiva espansione – del formato di riferimento. Una scelta azzardata ma coscienziosa, lontana dalla stilizzazione tout court bensì propria della narrazione e dell’evoluzione della caratterizzazione. Un film sulla consapevolezza di una malattia (sociale) che porta con se una nuova consapevolezza, non più sull’alienazione ma sulla comprensione e sull’accettazione della realtà. E a noi non rimane quindi che indossare le orecchie dell’alieno e a rassegnarci a vivere sulla luna, che dista dalla nostra abitazione, tra l’altro, solo pochi passi. Un film a noi molto più vicino di quanto possa, nella sua stranezza, sembrarci. Un fischio nelle orecchie che in chiusura siamo noi spettatori a sentire, e a ricordarci che, come sosteneva Jim Morrison, "people are strange when you’re stranger".