Party Girl
Una rappresentazione a metà di una figura controcorrente poco indagata nelle sue contraddizioni
C’è chi nasce con un’inclinazione naturale alla ricerca del divertimento. Angelique ha fatto di questa sua personale caratteristica uno stile di vita che stenta ad abbandonare anche passati i sessant’anni. Così ogni giorno indossa i suoi tacchi alti e la minigonna e si guadagna da vivere nei locali di striptease facendo comprare agli avventori del bar che vogliano intrattenersi con lei una bottiglia di champagne. Quattro figli, un’esistenza vissuta di notte, una danza ininterrotta di feste e ammiratori, corpi nudi allacciati hanno lasciato sul volto della ex ballerina i segni di una vecchiaia impietosa, che lei cela sotto l’ombretto nero e i gioielli di cui si ricopre; ma la precarietà della propria situazione economica ed affettiva inizia a farsi sentire nel tempo della maturità e così, convinta dalle pressanti avances di un vecchio ammiratore Angélique accetta di sposarlo e si butta nei preparativi del matrimonio, tra posti da lasciare e parenti da riunire.
In una storia che racconta la distanza fra la fatica del corpo e la leggerezza dello spirito Party Girl deve necessariamente incentrarsi sul volto della protagonista, splendidi occhi chiari, incavati nelle palpebre rugose, che scrutano enigmatici il mondo senza far trasparire i propri pensieri. È in effetti il viso di Angélique viene plasmato come un’antica maschera grottesca che sembra richiamare l’immagine iconica, ancora bistrattata nella nostra cultura di una vecchiaia avida di nutrirsi di vita fino alla fine. Scandalosa allora la sessualità senile che ricerca il piacere oltre la riproduzione, nemmeno giustificata da una formale fertilità, soprattutto qualora si parli di donne. Su Angélique la macchina da presa si ferma senza andare oltre, costruendo un personaggio principale troppo ambiguo per ogni immedesimazione. Certo è solo il suo profondo amore materno, rinvigorito dall’imminente matrimonio come scusa per ritrovare i propri figli ormai adulti e autonomi, anche l’ultima nata, ora adolescente, tolta e data in custodia a una famiglia affidataria.
Party Girl apre volando alto per poi accontentarsi di mantenere una bassa quota: l’eccessiva evanescenza della sua protagonista la costringe in un racconto troppo stringato, perdendo l’occasione di descrivere con maggiore attenzione i ruoli secondari dei figli, cresciuti da una madre così atipica e la sincerità del sentimento del promesso sposo, incantata da una donna di cui però soffre l’esuberanza. Angélique, tanto disponibile al contatto fisico, si chiude alle carezze del partner sognando l’amore appassionato delle canzoni poco attenta alle aspettative di chi la vorrebbe ormai pacificata in una routine tradizionale. Con un certo candore si aspetta di ritrovare negli altri il medesimo entusiasmo che la contraddistingue. Questo diritto al disimpegno richiama discorsi di tipo morale, su quanto sia giusto reprimere la vitalità nel periodo apparentemente più “spento” della vita, o meglio, mostrare senza pudore questa fame sempiterna di sesso, emozioni e alcool accettando di offendere chi preferisce posare gli occhi solo un’effervescenza vestita di carne liscia e soda. Al di là delle opinioni personali è chiaro l’intento di legittimare la padronanza del proprio stile di vita, accostando ad Angélique le sue amiche ugualmente invecchiate e voraci: ma oltre questa condivisibile presa di considerazione non resta molto altro, se non un ritratto incompiuto di una donna in bilico fra immaturità e consapevolezza, più arresa a se stessa che libera.