La casa delle bambole – Ghostland
A dieci anni dal cult "Martyrs", un'altra storia di violenza estrema da parte di Pascal Laugier, che ci racconta qui l'importanza dell'immaginazione come arma per combattere una realtà atroce.
Cosa ha fatto in tutti questi anni, Pascal Laugier? Come molti altri eroi dello Splat Pack 2003-2008 (quella corrente di horror estremo, soprattutto europeo, che a metà anni duemila resuscitò un genere anestetizzato dallo slasher liceale), il regista francese sembrava essere diventato vecchio precocemente, all'improvviso. Le tendenze mainstream dell'horror cambiano più velocemente che in qualsiasi altro genere, ed è un attimo ritrovarsi da Profeta di un nuovo cinema a vecchia gloria nel giro di un film e mezzo. Aja è calato, Balaguerò si è imborghesito, Gens non si sente più. Da Laugier si aveva avuto l'ultimo segnale di vita con il rivedibilissimo esperimento hollywoodiano di I bambini di Cold Rock (2012), prontamente rimosso dall'immaginario. Nel 2018 sono passati esattamente dieci anni da quel Martyrs che ne fece una meteora: e come a voler celebrare il decennale di quel classico, Laugier è riemerso, ripartendo proprio da lì per tornare finalmente a fare i suoi film.
I punti di contatto di La casa delle bambole – Ghostland con quello storico film sono talmente tanti ed espliciti da sfiorare l'operazione meta-cinematografica (a cui Laugier ha sicuramente pensato): un riaffacciarsi di concetti, soluzioni, stilemi, che confermano forse per la prima volta la vena autoriale di un regista il cui sguardo personale si era dissolto troppo presto. Il cinema di Pascal Laugier è quello di una “poetica della tortura”, da intendere alla lettera: non l'orrore del soprannaturale e dell'assurdo, ma quello, concretissimo, della sopraffazione, dell'annichilimento fisico e mentale. Laugier, a ben vedere, si è sempre considerato Autore, ma questa voglia un po' pretestuosa di andare a parare su grandi concetti strangolava gran parte delle sue pellicole (Martyrs in primis, che al netto dell'incontestabile statuto di classico, rimane un film tutt'altro che perfetto). Ghostland è forse il primo passo in avanti del regista registrato da quel 2008. Un film potentissimo, sadico e contorto. Ma con un senso e un significato finalmente centrati.
Ghostland è dunque un'altra storia di tortura, dalle meccaniche simili a Martyrs, ma con risvolti diametralmente opposti. Protagonista è una ragazzina sui quattordici anni, Beth (Emilia Jones), chiusa e bloccata, aspirante scrittrice horror con il mito di Lovecraft. Insieme alla madre (Mylène Farmer) e alla cinica sorella Vera (Taylor Hickson), si trasferisce nell'isolata casa di campagna della zia defunta. Una magione cadente e ingombra di paccottiglie e bambole inquietanti («sembra una delle case di Rob Zombie», dice Vera, e siamo esattamente lì). La prima sera di soggiorno, le tre vengono assalite da una coppia di aggressori.
Quello che verrà dopo non può in alcun modo essere anticipato. Chi conosce Laugier sa che la sua cifra è il cambio di direzione: il martellamento continuo di colpi di scena e ribaltamenti di prospettiva, che portano i suoi film su mille binari differenti rendendoli incatalogabili (e spesso tortuosi, se non addirittura noiosi). Dunque, altro non va svelato. Per comprendere il film, è necessario approcciarlo nella sua interezza.
Ghostland è, per strano che possa suonare, una sorta di doppio positivo di Martyrs. Anche stavolta il centro è la tortura e la violenza (anche sessuale), inflitte su protagoniste (minorenni) incapaci di reagire. Ma rispetto al cupissimo film del 2008, Ghostland non è nichilista. Dietro la vorticosa struttura del film, viene portato avanti un discorso estremamente personale sul motivo ultimo della narrazione e del racconto (horror, ovviamente). L'immaginazione perversa come strumento di fuga, ma anche arma per affrontare l'inferno a viso aperto. Al cuore di tutto, è in fondo la storia di una giovanissima donna, e del suo scendere a patti con i propri sogni e la propria immaginazione, per raccogliere la forza di combattere una realtà atroce. In questo senso, l'horror che ossessiona Beth è strumento di escapismo, ma anche di rivalsa nel momento di riaprire finalmente gli occhi.
In un classico gioco narrativo a scatole cinesi (realtà-sogno-ricordo), Ghostland affronta a modo suo il grado zero dell'orrore (l'home invasion: l'irruzione dei mostri), per cercarne l'esorcismo. Dopo il consueto gioco di false piste e giri a vuoto, alla stessa maniera di Martyrs, Ghostland trova il suo senso di esistere nel terzo atto. Che stavolta non è torture porn ma la guerra finale contro di esso, in un delirio di corpo a corpo feroce, estenuante e liberatorio. E dove le bambole argentiane, la casa hooperiana, i jumpscare raimiani, diventano elementi umani, per combattere il disumano dello stupro e della tortura.
Ancora una volta, i mostri sono gli uomini (qui una coppia di deviati da leggenda), e i mostri della fantasia diventano alleati da spaccargli in testa, come la grottesca macchinona da scrivere che Beth si porta sempre appresso. Ed è logico che, nella scena già più bella del film, appaia proprio Howard Philip Lovecraft, con il mascellone e lo sguardo cupo dell'iconica fotografia. Come Elvis in Una vita al massimo, per l'ultima grande spinta alla fiducia della protagonista. E a Laugier, che ne aveva bisogno.