Pasolini
Pasolini di Ferrara è un viaggio onirico sulla morte e il pensiero pasoliniano. Una delle vette di Venezia 71
La verità non sta in un sogno, ma in molti sogni.
Le mille e una notte
Per comprendere il senso dell’operazione di Abel Ferrara bisognerebbe partire dalla figura di Ninetto Davoli, corpo pasoliniano per eccellenza, chiamato dal regista newyorchese ad interpretare il ruolo che Pasolini aveva immaginato per Eduardo De Filippo nel suo progetto incompiuto Porno-Teo-Kolossal, viaggio sulle tracce del nuovo messia compiuto da un magio randagio di nome Epifanio e dal suo assistente Nunzio. La sua presenza nel film non si traduce in sterile omaggio ma al contrario serve al regista per vivificare e attualizzare il pensiero pasoliniano in un corpo vivo che a poco meno di quarant’anni dalla morte continua a (ri)guardarci, parlare e a respirare sotto forma di immagine. Non a caso le sequenze a Sodoma del Porno-Teo-Kolossal sono girate nella Roma di oggi. Ferrara non fa niente per camuffare la scena, ma al contrario esibisce in modo quasi sfrontato i segni della contemporaneità, traslando le riflessioni pasoliniane nel tempo presente.
La figura di Ninetto Davoli, ormai invecchiata, si inserisce in questa prospettiva decentrata e frantumata, che non si limita a ricostruire, sia pur rigorosamente come mai prima d’ora in Ferrara, l’ultimo giorno di vita dello scrittore e regista, ma lo reinventa, trasformandolo in un viaggio nel pensiero e nella mente prima ancora che del corpo. Tant’è che Pasolini risulta a conti fatti un corpo negato, una presenza incerta nell’immagine, sistematicamente sottratta alla rappresentazione, quasi una comparsa nella grande tragedia minimalista che Ferrara ha immaginato per lui. Immerso nelle ombre e nel nero pece della notte romana e della sala di montaggio, il suo è un corpo destinato alla morte sin dalla prima inquadratura. E per questo sempre sul punto di svanire, in dissolvenza, inghiottito dalle tenebre o sostituito dalle sue fantasie, dalle sue opere e infine dai familiari che ne piangono la scomparsa nell’intenso finale.
Ferrara vuole dare forma all’immaginazione di Pasolini più che alla sua fisicità, vuole entrare in intima connessione con lui, restituendone la complessità del pensiero attraverso brandelli di testo e fonti di ogni tipo (le ultime interviste, le lettere a Eduardo De Filippo e Alberto Moravia, alcuni passaggi di Petrolio e Porno-Teo-Kolossal, le immagini di Salò) che accolgano tutte le discipline affrontate dal poeta, dalla saggistica alla letteratura fino al cinema. Questi frammenti, che emergono sullo schermo in tutta la loro dirompente carica onirica, vanno a costituire una sorta di drammaturgia della fine - i corpi violentati dei ragazzi di Salò, le drammatiche notizie di cronaca nera sul Corriere, la città dominata dagli omosessuali e la morte dell’utopia in Porno-Teo-Kolossal, l’incidente aereo in Petrolio – e allo stesso tempo raccontano le pulsioni dell’uomo senza filmarle direttamente, come nel caso della sequenza “eucaristica” del Pratone della Casilina. Ma senza sofferenza né dolore: il Pasolini di Ferrara è una figura eterea, quasi sempre immobile, figlia della notte, dell’oscurità e del sogno, che parla solo attraverso le fonti ufficiali. E’ una sorta di fantasma che si aggira per casa o per le strade con l’andamento compassato di un sonnambulo.
In continuità con l’ultimo periodo registico del suo autore il film procede senza strappi, lacerazioni, disperazione. Ancora una volta dopo 4:44 e Welcome to New York un altro film sulla "fine": Pasolini attende quasi placidamente che il suo destino si compia, consapevole di come i suoi viaggi quotidiani all’inferno presto o tardi saranno senza ritorno. Dopotutto, come dice nell’intervista con Furio Colombo, siamo tutti in pericolo, condannati a vivere in un mondo violento dove la sopraffazione regola le esistenze degli individui. E se non c’è più spazio per la speranza, dissoltasi insieme con la scomparsa del sottoproletariato e con la società dei consumi, è ancora possibile continuare a sorridere per il bambino di Ninetto, la danza di Laura Betti, la voracità di Pino Pelosi mentre mangia gli spaghetti. Piccoli, banali momenti privati che ci restituiscono un Pasolini intimo, capace ancora di conservare un sguardo affettuoso sul mondo. La sua morte in fondo è filmata come se fosse una questione di famiglia e di affetti più che di stato – come non vedere nel primo piano straziante della madre un evidente richiamo al pianto della vera Susanna Colussi ai piedi della croce nel Vangelo Secondo Matteo? Le reazioni delle masse e degli intellettuali restano invece fuori campo, come d’altronde anche la verosimiglianza linguistica, mandata a farsi benedire da Ferrara che fa parlare Pasolini sia in inglese che in italiano. In inglese quando parla la lingua del pensiero e della riflessione intellettuale (la sua lingua naturale alla quale quasi tutti si adeguano), in italiano quando interagisce con Pino Pelosi, che non potrebbe mai comprendere il linguaggio borghese. In questa così come in tante altre scelte (il corpo di Pasolini in dissolvenza, la dialettica tra cronaca rigorosa e slanci immaginativi) si situa il cuore intimo dell’opera, che coraggiosamente riporta in vita Pasolini per filmarne prima la morte e poi la rinascita. Il suo cinema continua a (soprav)vivere nelle immagini di Ferrara, che si consegna nudo e senza difese ai troppi esegeti pasoliniani (già pronti con i fucili spianati) pur di riaffermare la vertiginosa attualità del pensiero e dell’immaginario del poeta friulano.