La verità sta in cielo
Il settantatreenne Roberto Faenza sciorina ogni sua conoscenza del caso Emanuela Orlandi
Tutto ha inizio il 22 giugno 1983. Terminata la lezione di musica, la quindicenne Emanuela Orlandi abbandona l’aula e si dirige verso la fermata dell’autobus. La ragazza non farà mai ritorno a casa divenendo protagonista di uno dei casi più oscuri e celebri della cronaca nera italiana e vaticana. Ai giorni nostri, una giornalista inglese (Maya Sansa) viene mandata in Italia per indagare sulla scomparsa dell’allora giovane cittadina vaticana e la relativa connessione allo scandalo Mafia Capitale. Ad aiutare la reporter ci penserà una collega autoctona (Valentina Lodovini) che ha avuto modo di parlare con Sabrina Minardi (Greta Scarano), donna del boss della Magliana Enrico De Pedis (Riccardo Scamarcio).
La verità sta in cielo dovrebbe essere un thriller di inchiesta. L’uso del verbo al condizionale è presto detto: la classificazione in un genere ha la funzione di creare un’aspettativa nel pubblico e suggerire una corretta forma mentis con la quale approcciare il racconto. Definendo il film di Roberto Faenza in tal modo lo spettatore andrà in cerca di suspense, mistero, colpi di scena e soprattutto scottanti verità. Queste ultime, come suggerito dal titolo, non sono qui tra noi. Purtroppo neanche il resto. Sarebbe quindi molto più corretto parlare di La verità sta in cielo in primis come di un film brutto. Se non si prova a nasconderla e la si accetta in tutta la sua presenza, la mediocrità può avere il suo fascino. E l’ultimo lavoro di Faenza ne è pregno. Anzitutto non succede nulla, ogni cosa è detta. La testimonianza orale non è utilizzata come incipit per un racconto in flashback ma come vorticoso passaparola in cui ci si perde: la giornalista inglese ascolta dalla collega italiana quello che ha sentito dalla testimone a cui è stato rivelato dal malvivente. Va da sé che la maggior parte del film è costituito da un campo medio in cui due attori conversano, o per la precisione uno rivela all’altro informazioni che sembrano lette pari pari da Wikipedia. La recitazione non aiuta e meno ancora un doppiaggio che a volte va fuori sincrono. Quando la Minardi ha i suoi pentimenti e crolli emotivi che sfociano in crisi di pianto, l’assenza di pathos nella regia e di introspezione psicologica nella sceneggiatura la fanno apparire tristemente patetica. Il Renatino con il volto di Scamarcio ha ben poco del bello e dannato e non regge minimamente il confronto con l’interpretazione che ci regalò Alessandro Roja nella serie Romanzo criminale. Infine Maya Sansa che ha un mancamento alla scoperta di essere stata gabbata può fare ridere o sbadigliare, a seconda dell’entusiasmo messo dal singolo spettatore. Le sensazionali rivelazioni dei personaggi sono inframmezzate da brevi e didascaliche immagini di repertorio, come se nella mente dell’ascoltatore si accendesse un rapido collegamento con un telegiornale d’epoca, e sono puntualmente accompagnate da una musica del mistero tipica del b-movie. Sorvolando su vari errori di raccordo, scavalcamenti di campo, sfondi incongrui e dialoghi banali, La verità sta in cielo non risulta mai minimamente credibile. Emblematica è in questo l’unica scena d’azione in cui tre buzzurri entrano mascherati e armati in un locale semivuoto e passano inosservati solo perché fuori si festeggia Carnevale.
Dispiace dovere parlare male di un anziano regista che ha sulle spalle quasi mezzo secolo di carriera ed è umilmente più auspicabile ringraziare Roberto Faenza per averci donato un’opera weird. Uno stracult che sa unire infiniti dialoghi a primi piani di natiche e seni al vento e una testa mozzata in vero stile exploitation. Chi di Emanuela Orlandi non sapeva nulla prima della visione, probabilmente non saprà molto neanche dopo. Chi invece qualcosa conosceva, ne verrà fuori con le idee più confuse. D’altronde, come recita la tag-line sulla locandina: "Il caso Orlandi - tutto così incredibilmente vero - da sembrare impossibile". Insomma, un film che non sta né in cielo né in terra.