E’ trascorso quasi un anno da quando Passion, a tutt’oggi il più recente lavoro di Brian De Palma, è stato presentato alla 69ma edizione della Mostra del Cinema di Venezia, suscitando una moltitudine di reazioni contrastanti, tra polemiche e stroncature senza appello.
Il film segna il ritorno del regista italo-americano a quello che è considerato il suo genere per eccellenza, ossia il thriller, dopo il magnifico e durissimo excursus nel reportage rappresentato da Redacted (2007), incentrato sugli orrori della guerra in Iraq e sulle modalità mediatiche di rappresentarla. Passion porta avanti, in un certo qual modo, il medesimo discorso dell’opera precedente, tra telecamere a circuito chiuso e smartphones che riprendono, pedinano e inchiodano chi ha qualcosa da nascondere, riproponendo ancora una volta una delle tematiche più care a De Palma ossia il doppio, qui inteso anche in quanto livello di realtà non soltanto duplice bensì molteplice: il video, l’onirico e un reale che risulta perennemente in dubbio, sfumato, incerto.
La pellicola è remake dell’ottimo Crime d’amour, film francese del 2010 diretto da Alain Corneau: alcuni dialoghi vedono l’adattamento per mano della co-sceneggiatrice originaria, Natalie Carter, e il produttore è il medesimo per entrambi i lavori, Saïd Ben Saïd; il tutto è frutto di una collaborazione produttiva tra Francia e Germania ed è stato girato in terra teutonica a velocità record, soltanto due mesi, tra Marzo e Maggio 2012.
Passion, nella sua prima parte, è assai simile al film ispiratore, sia dal punto di vista narrativo e dialogico che della messa in scena: ciò che può colpire maggiormente infatti è un visivo sostanzialmente convenzionale e sobrio, per lo più scevro da quelle impronte stilistiche divenute marchio inconfondibile del regista. Nel corso del racconto, in concomitanza con uno snodo fondamentale, l’opera imbocca invece una direzione indipendente e del tutto personale, staccandosi dal modello di Corneau per riabbracciare tutti gli stilemi registici (e tematici) del regista di Doppia personalità e Vestito per uccidere. Qui, infatti, ritroviamo tutto il miglior De Palma, una sorta di compendio visivo e semantico, vero e proprio inventario di ciò che il cineasta ci ha mostrato in circa cinquant’anni di carriera (gli esordi risalgono al 1960 col corto Icarus): il già citato concetto di doppio, il ruolo del caso come attimo brevissimo ma determinante nel cambiare il corso di un’intera storia (impossibile non pensare al finale di Carlito’s Way), la sessualità intesa anche come voyeurismo e, da qui, la fondamentale importanza dello sguardo e delle soggettive. Gli split screens, il virare sul colore (il blu, in questo caso), la patinatura visiva e i movimenti di macchina virtuosistici, non fini a loro stessi bensì atti a mostrare la bellezza del cinema puro, completano quella che può essere considerata la summa del suo modo di approcciarsi al filmico, ossia la reiterazione di tòpoi iconici identici ma in grado di apparire sempre e comunque diversi.
Il Femminile è presenza ricorrente nelle opere di De Palma, punto cardine delle sue narrazioni, dalle due sorelle del film omonimo (1973) all’indimenticabile Carrie (1976), fino ai più recenti Femme Fatale (2002) e Black Dahlia (2006): donne di volta in volta assassine, outsiders, vittime, folli, seduttrici, rappresentate spesso senza troppi scrupoli al punto da vedersi lanciare addosso sommarie e superficiali accuse di misoginia. Passion mette in scena tre figure muliebri: Christine (Rachel McAdams), affermata e cinica dirigente d’azienda, Isabelle (ottima e ambigua Noomi Rapace), creativa in carriera, dapprima “protetta” poi ostacolata da Christine, e infine Dani (Karoline Herfurt), assistente di Isabelle, personaggio solo apparentemente di contorno. Le tre protagoniste e l’ambiente in cui si muovono, ossia quello delle multinazionali – nelle quali “non esiste la coltellata nella schiena, sono solo affari”, come sibila Christine alla basita collega subito dopo averle sottratto il merito di un’idea – sono i simboli di un tema più ampio, basato sulla società odierna, i suoi rapporti di forza e le sue dinamiche di controllo. Quest’ultimo è punto fondamentale, poiché gli inganni e le turpitudini di Passion scorrono sugli schermi di portatili della Apple, i momenti imbarazzanti vengono immortalati da telecamere a circuito chiuso al fine di esporre il collega di turno alla pubblica derisione. Anche l’omicidio viene filmato, ripreso e usato come arma di vendetta e ricatto: il pedinamento della vittima, tipico del cinema di De Palma, è ora anche subdola osservazione del carnefice, portando così il discorso del doppio su livelli stratificati e complessi. Le figure di Christine e Isabelle sono apparentemente opposte, in realtà speculari, la maschera bianca usata negli atti sessuali (e nell’assassinio) non è solo calco di Christine ma è il nascondiglio del proprio Sé mostruoso, così come già mostrato (ed estremizzato) nel magnifico Il fantasma del palcoscenico (1974).
Anche la virata narrativo/stilistica che ha luogo dopo la prima metà del film ne è la sua seconda faccia, in una bifrontalità continua tramite la quale assistiamo a una realtà ipnotizzata, mescolata alla dimensione onirica, al punto da rendere l’una e l’altra difficilmente distinguibili. Nel finale, si ritrova un De Palma più indefinito del solito, che non fornisce risposte certe ma soltanto supposizioni: ciò che permane, è l’elemento del caso che entra in gioco in un piccolo gesto e cambia (o potrebbe cambiare) l’intero svolgersi degli eventi. La Rapace, col suo volto duro e androgino, attraversa il film trasformandosi e trasformandolo, fino alla sequenza chiave, quella del balletto (Il pomeriggio di un fauno, rappresentazione moderna ispirata alle musiche di Debussy e al poema di Mallarmé), a cui Isabelle assiste in contemporanea con l’omicidio, che vediamo in split screen: un continuo gioco di sguardi, suoni, parole, gesti che è danza filmica in se stessa.
Passion, rimasto inedito nelle sale italiane, può essere considerato come un piccolo gioiello sottovalutato, giudicato troppo di maniera e di stampo televisivo: da riscoprire, per poterlo rileggere con attenzione e coglierne la complessa (e incompresa) bellezza.