Perez.

Perez. di Edoardo De Angelis insegue le traiettorie del noir ma non è supportato da una regia all'altezza della situazione.

Si respira un’aria opprimente nel secondo film di Edoardo De Angelis, quasi interamente ambientato al centro direzionale di Napoli, cittadella dal sapore metafisico dove il regista proietta il suo anti-eroe dal volto triste, un avvocato d’ufficio senza qualità di nome Perez (Luca Zingaretti) alle prese con un collaboratore di giustizia spietato e il fidanzato della figlia, camorrista dalla faccia pulita. Il regista lavora sugli spazi cercando spesso la via della verticalità (si veda la prima inquadratura, oppure la posizione dell’abitazione del protagonista) – inevitabile in un luogo in cui svettano numerosi grattacieli – come risposta ad un contesto e ad una situazione esistenziale immobile e soffocante, dalla quale sembra impossibile uscire. Se si escludono un paio di deviazioni che portano Perez fuori dalla città (e non a caso decisive per le sue sorti), Napoli coincide sempre con il quartiere completato nel 1995. L’idea sembrerebbe di dare un’immagine diversa di Napoli nel tentativo di fuggire gli stereotipi, certo, ma anche per adattarla ad un genere come il noir, apparentemente lontano anni luce dalla calda e passionale identità partenopea. In Perez. la città perde i suoi connotati tipicamente mediterranei, trasformandosi in un grande spazio vuoto quasi astratto nel quale la distanza tra le persone si misura con evidente plasticità. Gli uomini del film sono chi più chi meno tutti sconfitti dalla vita e per questo profondamente soli; a volte provano a stabilire un contatto, ma poi lo rifuggono quando le domande invadono il privato o fanno emergere traumi del passato che si vorrebbe tenere nascosti nei ricordi. Non c’è speranza, forse, o almeno sembra pensarla così il suo protagonista, depresso per la separazione dalla moglie e per un lavoro avaro di soddisfazioni. Tant’è che quando viene minacciato con una pistola da due piccoli criminali di strada non ha paura, ma anzi li sfida a premere quel maledetto grilletto, tanto non ha niente da perdere. Nella vita quotidiana preferisce invece attendere che gli eventi si compiano senza interferire. La sua strategia è l’attesa e il silenzio, spesso la migliore risposta quando la situazione è delicata. La mente però non smette mai di riflettere su ciò che lo circonda, che sia la figlia, il lavoro o il proprio passato, tutto viene vagliato dal severo (e assertivo) pensiero dell’uomo, a tratti compiaciuto nella sua posa da loser. Perez è un fiume in piena di parole, analisi, sentenze, di cui egli sembra servirsi come arma di difesa contro il mondo infame in cui vive. Ma a un certo punto è richiesta l’azione, fosse anche solo per rivendicare un barlume di vitalità. E allora non c’è altra via se non la fuga: dal panorama pietrificato del centro direzionale passiamo al bosco e al mare increspato di Castel Volturno, qui si compirà il destino di tutti i personaggi.

Come detto in precedenza il regista insegue platealmente il noir, a partire dalla caratterizzazione del protagonista, ma anche per la geografia umana che descrive. Per non parlare poi delle traiettorie narrative che convergono fino ad una resa dei conti esistenziale che ha il sapore dell’ultima possibilità, o peggio, di inevitabile incontro con la morte. Insomma, tutto, ad esclusione del set, forse la nota più lieta dell’opera, concorre a creare un’idea di noir che però quasi mai riesce a discostarsi da un immaginario televisivo. Il regista si mette umilmente in disparte, sembra privilegiare le psicologie e le introspezioni più che la storia, ma manca il bersaglio. Da un lato si affida con eccessiva fiducia ad una sceneggiatura carente proprio nella definizione dei personaggi, quasi tutti abbozzati ad eccezione di Perez; dall’altro denuncia troppa timidezza nella messa in scena. Si avverte, in sostanza, la mancanza di un’idea di regia capace di scuotere il film nei momenti decisivi e più in generale di fare proprio il genere, di renderlo un linguaggio personale che sappia andare oltre i codici e gli stilemi per raggiungere il cuore delle cose. Alla fine si rimane sospesi a fissare padre e figlia senza fare a meno di chiedersi, con rammarico, come sarebbe stato il film con una regia più consapevole.

Autore: Giulio Casadei
Pubblicato il 06/09/2014

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