Inside the Yellow Cocoon Shell
Una ricerca che diventa intima e spirituale, mentre l'immagine supera i limiti del tempo e dello spazio per condurre lo sguardo alla ricerca della fede.
"Le cadre est une cache", scriveva André Bazin. L'inquadratura è una benda, un nascondiglio, che stabilisce ciò che è visibile e ciò che invece rimane fuori campo, invisibile, ai limiti della percezione. Due elementi che nel cinema instaurano un costante dialogo, compenetrandosi nello spazio centrifugo dello schermo. È proprio il fuori campo che spesso assume il ruolo più importante, delineando e ampliando, nella sua imminenza, quello che si mostra allo sguardo. Phạm Thiên Ân sin dai primi cortometraggi si è dimostrato particolarmente affascinato dal rapporto tra campo e fuori campo, tra ciò che prende forma nell'immagine e ciò che succede subito al di fuori o che non risulta in un primo momento visibile. Il giovane regista vietnamita, in Inside the Yellow Cocoon Shell, ripensa questa relazione e la ridefinisce con un'approssimazione tra cornice e schermo, che diventa qui centripeto. Le immagini perdono qualsiasi confine e al loro interno i margini si piegano allo sguardo e alla sua persistenza. Guardando in profondità e a lungo, oltre la durata consentita, vincendone la resistenza, l'immagine si apre a nuovi spazi e attrae il fuori campo, disvelandolo. È quello che cerca di fare Thien, il protagonista, nel tentativo di trovare la fede e di riconnettersi con la propria anima. Di aprirsi, quindi, a una nuova percezione, a una nuova dimensione di sè, che avverte in un primo momento come un qualcosa di sfuggente, situato al di là della vista.
Inside the Yellow Cocoon Shell inizia con un piano sequenza che rappresenta un'estensione del precedente cortometraggio di Phạm Thiên Ân, Stay Awake, Be Ready. Un'unica inquadratura che si affaccia come una finestra su una piazza di Saigon e che si apre alla sua brulicante e frenetica vita. Da una partita di calcio - vista attraverso una rete, il primo dei tanti filtri che schermano le immagini del film - si passa, attraverso il movimento di una mascotte seguita dalla macchina da presa, a tre giovani ragazzi che discutono di fede e degli scopi dell'esistenza, mentre attorno a loro decine di persone cenano e si spostano, in un incrocio di vite e di traiettorie. "Vorrei credere, ma non posso", dice Thien. È la mente a trattenerlo, a frenarlo, a precludergli la fede. Tutto sembra partire da qui, da queste parole pronunciate fugacemente e distrattamente, che sono un prodromo del conflitto e del viaggio interiori che avranno luogo di lì a poco. L'incidente che toglie la vita alla cognata segna l'esistenza di Thien, riconducendolo nei luoghi in cui è cresciuto per prendere parte ai funerali e per accudire il piccolo nipote, e riconnetterlo così con tradizioni e culture da cui ormai si era allontanato. Sono ombre che sembrano richiamarlo dal passato e da un altrove, in attesa di una risposta, com'è in attesa il cellulare di Thien che squilla incessantemente, da lui ignorato. "È Dio che sta chiamando", e forse è davvero così.
Dal caos di Saigon Thien si ritrova nelle antitetiche valli del Vietnam centrale, ammantate da una nebbia misterica, che risuona nell'immagine, e abitate dalla minoritaria popolazione cristiana. Lo sguardo di Phạm Thiên Ân si fa quasi antropologico nell'osservare uno dei volti meno noti del paese asiatico, riprendendone i rituali funebri, i canti, le processioni e i simboli religiosi. Affiorano nelle inquadrature come la statuina di Cristo che vediamo spuntare dall'alveo di un fiume, o come la scena di San Tommaso rievocata quando un anziano mostra e fa toccare a Thien la ferita di guerra sul costato. Il viaggio del protagonista assume un valore profondamente spirituale, allontanandolo progressivamente dalla civiltà e dai suoi punti di riferimento, attraverso l'astrazione dei luoghi e la diluizione del tempo, ed esponendolo a un confronto onirico con l'ignoto. Spazio e tempo perdono quindi la propria definizione, mentre presente, passato e sogno si confondono - e sembrano persino sovrapporsi, nella scena d'amore e di commiato tra Thien e la ragazza nell'edificio abbandonato di tarkovskijana memoria - sino a culminare nel momento in cui si immerge nelle acque di un fiume, in una raffigurazione battesimale che lo avvia a una nuova vita e a una nuova visione.
La ricerca intrapresa nella seconda parte del film, nel tentative di Thien di rintracciare il fratello scomparso anni prima, è in realtà una ricerca interiore, che Phạm Thiên Ân esprime e racchiude nelle immagini, sondandone la durata e l'intensità. La camera fissa, i piani sequenza interminabili e i movimenti di macchina sinuosi richiamano il cinema di Bi Gan, Apichatpong Weerasethakul e Tsai Ming-liang, ma è soprattutto alla comune matrice antononiana che il regista vietnamita sembra guardare, non solo per il tema della scomparsa, ma in particolare per l'alienazione di Thien ("Hai forse abbandonato la tua anima?"), per il rapporto spirituale tra personaggio e paesaggio e per la pulsione del fuori campo. Ogni piano sequenza del film, ben lungi dall'essere uno sfoggio tecnico gratuito, è un atto di osservazione, un momento di puro sguardo che vince ogni resistenza e che valica le finestre, le grate e i vetri che spesso schermano le inquadrature. Uno sguardo che si condensa nel gesto di Thien di passare una mano sul vetro di una doccia, per diradare l'appannamento e poter vedere meglio, o negli splendidi piani sequenza che fissano la penombra e il buio fino a che l’occhio si abitua e svela ciò che nascondono tra le loro pieghe.
Inside the Yellow Cocoon Shell si rivela un'espressione della spiritualità nell'immagine, oltrepassando i limiti nei quali il tempo vorrebbe comprimerla e donando non solo a Thien, ma anche allo spettatore una percezione diversa e nuova, a suo modo sconvolgente e intima.