The Pills - Sempre meglio che lavorare
Anti-film imperfetto che, nel suo rifiuto della struttura, ci pone di fronte all’inevitabile ridefinizione delle forme cinematografiche
Accostarsi all’opera prima dei The Pills implica il tenere a mente che un film non rappresenta unicamente un oggetto estetico ma anche – e forse in certi casi soprattutto – un dato sociologico, capace di rivelarci, a volte inconsapevolmente, qualcosa sul nostro mondo, sui nostri tempi, di connetterci, insomma, a una certa realtà.
E no, la realtà di Sempre meglio che lavorare non è quella dei Vitelloni quasi-trentenni né tantomeno quella del precariato lavorativo, temi attorno a cui ruotano piuttosto scopertamente le tre storyline che compongono in maniera frammentaria il film, quanto le dinamiche produttive del cinema italiano di oggi, così in cerca della next big thing da spingersi verso schermi più piccoli: come quelli provinciali di TeleNorba, che hanno lanciato Checco Zalone, la creatura milionaria di Taodue, o quelli del web, gli unici ormai a sfornare idee che non siano state rimasticate negli ultimi venti anni.
È uno strano oggetto questo esordio cinematografico di The Pills, che, nella sua forma sgangherata, nell’assenza di una vera struttura a tenere insieme plot e personaggi, tenta però di conservare la propria purezza, di non snaturarsi rispetto alla concisione del web.
In questo senso merita più rispetto di altre operazioni con web-star, come l’innocuo e insapore 10 regole per farla innamorare, dove la maschera eccedente di Willwoosh veniva confinata dentro rigidi e scontati schemi da commedia sentimentale, su soggetto di Brizzi e sceneggiatura della blogger Pulsatilla, spacciata a lungo per la Diablo Cody italiana.
In Sempre meglio che lavorare c’è invece una sorta di strenua resistenza nei confronti della struttura, che è rimasta, nel bene e nel male, la costante di questo gruppo di fronte a ogni contesto con cui sia stato chiamato a confrontarsi, da Deejay Television alla tv generalista. Anzi, di fronte a una sempre più pressante richiesta di addomesticarsi per poter ambire a un pubblico più ampio, la risposta del trio è stata una radicalizzazione della scrittura, con atteggiamenti anche deprecabili ma di indubbio impatto. Come la tirata su cocaina ed escort di Luigi in Divorzio al futuro, uno degli episodi usciti sul web per far da traino all’esordio cinematografico: qualcosa che il cinema borghese di oggi, quello delle asfittiche commedie di costume chiuse in un loft, da Mariasole Tognazzi a Sergio Rubini, non mostrerebbe mai.
Di questa scrittura libera e virulenta cosa resta in Sempre meglio che lavorare? Soprattutto la malinconia di fondo che percorre (e quasi corrode) il film e sembra trovare sfogo proprio nel titolo, in cui si riassume l’intero percorso creativo dei The Pills (e con loro di altri collettivi web), sempre nella paradossale condizione di dover imbottigliare il nuovo in un contenitore vecchio e cambiare tutto perché niente cambi.
Allora, risalendo la corrente dal web al grande schermo, la forma episodica e zoppicante diventa quasi rabdomantica: dalla parabola doppiamente mucciniana di Luigi, tra le ansie dei trentenni di Gabriele rilette attraverso le ribellioni liceale di Silvio, alle relazioni sentimentali-lavorative di Luca, che assumono le sembianze del calvario da droga-movie anni Settanta, parte un viaggio dentro una certa autorialità del cinema italiano degli ultimi decenni, ovviamente romana, che tocca Moretti e Muccino, ma soprattutto Carlo Verdone.
Perché il dato più interessante del film non ci pare certo l’esibito pastiche citazionista tra cinema americano e hongkongonese, ma le turbe alimentari di Luigi dal kebabaro, che rimandano epidermicamente alle metodiche rassegne di dolci del primo Moretti, a quelle notti infinite di chiacchiere e attese dell’alba, ma soprattutto quell’esigenza “de svoltà” sottesa all’intera operazione, in cui il gruppo sembra evocare il malinconico Verdone, forse il personaggio più prossimo, per modalità di sviluppo della propria poetica, a quanto si impone oggi ai dream team del web.
Ma il passaggio dagli sketch televisivi, dove andava maturando la sua galleria di personaggi, ai primi racconti compiuti per il grande schermo (soprattutto Acqua e sapone, qui richiamato in alcune soluzioni ma in special modo nell’umore di fondo) avveniva allora, sotto l’ala sicura di Sergio Leone, attraverso il film a episodi, forma ibrida che dava modo di acquisire col tempo un respiro cinematografico capace di tramutare la gag in narrazione.
Se sui tempi brevi The Pills è la realtà che più di tutte ha mostrato di possedere una sua identità, allora il problema è forse più produttivo che creativo. Perché nel cambio di mezzo la libertà tanto esibita dai produttori diventa un limite e ciò che più manca al film è una guida sicura. Se la libertà fosse davvero tale, probabilmente Vecchi, Di Capua e Corradini avrebbero continuato a preferire il web. Ma, almeno, questo imperfetto anti-film ci pone di fronte alla ridefinizione, ormai inevitabile, delle nuove forme cinematografiche.