Pixels

Oggetto anacronistico per costituzione, Pixels aspira ad essere esattamente come le schegge di immaginario anni 80 di cui si compone

Oggetto anacronistico per costituzione (e dunque in qualche modo già sconfitto in partenza), Pixels aspira ad essere esattamente come le schegge di immaginario anni 80 di cui si compone: un’esperienza (video)ludica votata al totale disimpegno e all’esaltazione del nerdismo. In sostanza, una dichiarazione spudorata di ingenuità. Niente di particolarmente originale, intendiamoci, i riferimenti sono scoperti così come lo sono le finalità. E’ fin troppo evidente come Chris Columbus, al suo ritorno dietro la macchina da presa cinque anni dopo Percy Jackson e gli Dei dell’Olimpo – Il ladro di fulmini, voglia recuperare la lezione di Ghostbusters, traslandola ai tempi dei selfie e di internet. A cambiare rispetto al passato sono ovviamente i nemici - che qui hanno le fattezze di Pac Man, Donkey Kong e di tanti altri personaggi dei videogiochi anni 80 - ma non la loro matrice, che alberga per entrambi nella memoria infantile. Tanto lì come qui, la minaccia ha origine nei ricordi e nei traumi del passato che ritornano nel presente pronti a sfidare le paure e/o i desideri dei protagonisti. Ciò che segna una distanza decisiva dal modello originale è naturalmente il tempo intercorso. Mentre Ghostbusters era un figlio naturale della sua epoca, qui ci troviamo di fronte ad una sorta di figlio degenere. Un bambino mai cresciuto che rivendica la nostalgia di un altro tempo e di un altro cinema. Non solo per quello che racconta ma soprattutto per come lo racconta. Allora non si tratta solo di evidenziare il ruolo salvifico della stupidità, semmai di negare alla radice qualsivoglia riflessione o sottotesto che non faccia già parte della superficie. Qui si gioca a carte scoperte, perché quel che conta è solo divertire. Ecco l’azzardo decisivo. Certo, in questa sede potremmo opporci rilanciando il giochino critico dell’analisi e delle suggestioni, alla ricerca di un’insospettabile complessità nascosta tra una battuta e l’altra, o magari persino inconsapevole all’autore. Con l’intento mai dichiarato esplicitamente, perché ce ne vergogneremmo, di redimere quelle immagini dal peccato originale della stupidità o dell’ingenuità. Come se la commedia, o “peggio” ancora il cinema demenziale, non possa essere presa in considerazione per quel che è ma debba necessariamente essere traslata in un altro campo da gioco, che è appunto quello dell’impegno, politico, sociale, intellettuale o civile che sia. Lo potremmo anche fare, ma non avrebbe senso. E non perché il film non offra spunti affascinanti, tutt’altro, ma perché significherebbe tradire la sua natura e soprattutto la nostra posizione di spettatori. O meglio, il nostro ricordo di spettatori. Quando vedevamo Ghostbusters o Animal House e non chiedevamo niente a quelle immagini se non di liberarci da ogni sovrastruttura attraverso l’energia incontrollabile di una risata. Magari a qualcuno non farà nemmeno ridere questo Pixels, e allora avrà ragione a lamentarsene. Ma la questione decisiva che il film pone riguarda direttamente le generazioni a cui si rivolge, al netto della facile identificazione nostalgica: siamo ancora in grado oggi, superati i trenta, i quaranta o i cinquanta, di apprezzare questo tipo di cinema?

Autore: Giulio Casadei
Pubblicato il 06/08/2015

Ultimi della categoria