All’interno della cinematografia europea la Romania sta pian piano acquisendo un maggior rilievo, e la luce che solitamente esalta lavori definibili “più che buoni” sta iniziando ad illuminare anche le sue creazioni. Tra queste possiamo sicuramente annoverare Police, adjective (Politist, adjectiv), terzo lungometraggio del regista Corneliu Porumboiu che con l’opera prima A est di Bucarest aveva già ottenuto numerosi consensi. Entrambi questi suoi film sono stati presentati al Festival di Cannes dove, con questo suo lavoro, nel 2009 Porumboiu ha vinto il Premio della Critica Internazionale (FIPRESCI) e il Premio della Giuria della sezione Un Certain Regard.
Police, adjective è quella che si potrebbe definire un’opera minimale: asciutta, con i dialoghi ridotti all’osso e i due terzi della pellicola occupati da scene dove regna il silenzio. Ma è così che si svolge la vita di Cristi (Dragos Bucur), poliziotto in borghese incaricato di pedinare alcuni adolescenti implicati in un caso di uso e spaccio di hashish. Le sue giornate sono fatte di appostamenti e inseguimenti all’insegna dell’attesa, aspettando che qualcosa accada in assoluto silenzio. Quando si parla però il linguaggio è utilizzato in un ripiegamento su sé stesso: così nei dialoghi con la giovane moglie Anca, così nelle discussioni con il capo della polizia, ci si interroga su cosa vogliano dire le parole e sulle implicazioni che le varie sfumature di significato portano con loro. Può essere il testo di una canzone, può essere un pronome usato in maniera errata, ma può anche essere la differenza che intercorre tra significato denotativo e connotativo di certi vocaboli… ognuno di questi aspetti risulta rilevante nella vita di questo giovane agente, soprattutto quando i quesiti che emergono nella sua mente assumono una veste etica, con un risvolto che va oltre la pura e semplice semantica. È giusto rovinare la vita di un ragazzo con un arresto forse prematuro? È giusto applicare una legge che forse di lì a breve verrà cambiata? La vita di un poliziotto però non può essere dominata dai forse, o così vorrebbe fargli credere l’ispettore capo.
La scena finale, un bellissimo piano sequenza, è quella che racchiude al suo interno l’essenza delle dinamiche di questo film: il quadro che si crea con la disposizione dei personaggi sembra rimandare all’iconografia della Trinità, con il capo al centro e i due sottoposti seduti ai lati, con la differenza però che colui che siede “alla Sua destra” non vi è in veste di continuatore ma di ribelle. Il vocabolario, che con fredda consapevolezza è richiesto dall’ispettore capo, viene trattato alla stregua di una Bibbia, un testo sacro dispensatore di verità assolute: non è possibile uscire al di fuori del percorso tracciato dai suoi insegnamenti, pena la messa in discussione di sé stessi e del proprio ruolo. Attraverso una stringente opera di dialettica, Cristi è messo di fronte ad una scelta che non può evitare di compiere.
Con Police, adjective Porumboiu pone al centro dell’attenzione il linguaggio con le sue regole, inserendolo in una trama povera di parole e in un’ambientazione – quella della Romania – povera di mezzi. Lo sguardo lucido e distaccato della macchina da presa si trasforma in quello altrettanto freddo dei personaggi attorno a Cristi, i quali non riescono a cogliere la problematicità della questione percepita solo dagli occhi del protagonista e, forse, da quelli dello spettatore.