Provate a mischiare Tre metri sopra il cielo, I ragazzi dello zoo di Berlino, droga, anoressia e ospedali psichiatrici più una massiccia dose di disagio giovanile e incomunicabilità transgenerazionale, che cosa pensate possa venirne fuori? Forse un capolavoro in mani esperte, ma pur con ottimismo, facendo un calcolo delle probabilità, la cosa è rara. L’alternativa è un grosso enorme pasticcio cinematografico, il sottotitolo mancato di Presto farà giorno, opera prima di Giuseppe Ferlito, che tenta di raccontare cento storie insieme non azzeccandone nemmeno una. In primis c’è una coppia di giovani innamorati, lei, Mary, in rotta con la madre manager in carriera, lui Loris, piccolo delinquente qualunque che l’aiuta a dimenticare gli scontri casalinghi con l’amore e la cocaina. Un tiro di troppo rischia però di mandare la ragazza all’altro mondo, costringendo la madre al severo provvedimento di un ricovero in clinica, mentre il fidanzato, che evidentemente non ha afferrato la lezione, si scervella con l’amico complice su come diventare spacciatore, fare i soldi veri e coronare il suo sogno d’amore.
Presto farà giorno insegue le emozioni della vita reale, o meglio le sue ombre platoniche, insistendo su uno linguaggio da videoclip nella speranza che lo stile frenetico risvegli sensazioni che una costruzione appannata dei personaggi non è in grado di suscitare. Un tentativo mal riuscito innanzitutto a causa della mediocre recitazione monocorde dei principali interpreti, e in secondo luogo di una scrittura narrativa poco coinvolta che punta a un accumulo di temi senza realmente approfondirne neanche uno. Il paradosso che ne consegue è di assegnare la propria simpatia a chi contrasta i novelli Romeo e Giulietta in particolare Chiara Caselli nel ruolo della madre di Mary, forse l’unico personaggio autentico di tutto il film, dilaniato dal proprio desiderio di crescere professionalmente – o ancora vogliamo descrivere le donne in carriera unicamente come fredde madri insensibili senza tempo per i propri figli? – e la preoccupazione per una figlia che si barrica dietro un risentito mutismo, sorda alle richieste di dialogo. La sua angoscia, la sua impotenza e i suoi sensi di colpa sono le sole emozioni reali prodotte dalla pellicola, altrimenti limitata a un rilancio di scosse visive – incubi mentali dentro la clinica, la seduzione crescente dei guadagni facili nella droga – che nasconde nient’altro che un semplice bluff cinematografico. Il merito maggiore dell’opera di Ferlito può essere definito il suo rivelarsi involontariamente un ottimo dizionario dei luoghi comuni del suo tempo: l’amore dei baci Perugina che si nutre solo di reiterate dichiarazioni d’amore in ogni luogo e contesto; i genitori che non sanno ascoltare e capire anche quando si tratta di figli che più di un orecchio partecipe, peraltro rifiutato, invitano a ben altra reazione; l’anoressia che può essere raccontata solo mostrando corpi scheletrici prossimi alla morte – e sull’iconicità del corpo anoressico e il suo facile consumo culturale ci sarebbe molto da dilungarsi; la clinica psichiatrica con i suoi casi da baraccone – perché il disagio mentale deve essere esternato sempre e solo in modi caotici e caricaturali; infine l’insopportabile medico barra amico con le sue perle di saggezza che fanno dubitare della sua effettiva capacità di curare i propri pazienti, soprattutto quando consiglia candidamente alla madre, tanto per migliorare la situazione, di non andare a trovare in ospedale la figlia per farle capire di essere oramai del tutto abbandonata a se stessa. Un gran guazzabuglio sconfortante che poco ha a che fare con il cinema o con la realtà; rimane solo il timore che qualche adolescente ignaro di entrambi i concetti possa innamorarsene.