Asciutto ed esilarante, Prince Avalanche cresce minuto dopo minuto. Proprio come la valanga citata nel titolo e che storpia il nome del protagonista, Lance. Si sviluppa con immagini spesso statiche, quadri che catturano una natura bella e imponente, calibrando i movimenti di macchina per sfruttarli solo laddove necessario e impregnandoli, così, di forza e significato. Caratterizzato da accortezze registiche ricercate e riuscite, il film ha fatto conquistare, non a caso, l’Orso d’argento per il miglior regista a David Gordon Green nel 2013.
Appare fondamentale sottolineare il peso nella pellicola delle due grandi interpretazioni attoriali, cuore pulsante di una storia concentrata esclusivamente sui suoi protagonisti. Il film si avvale, infatti, della straordinaria prova d’attore, catalizzata da un personaggio ben costruito e calzante, di un interprete ingiustamente sottovalutato nel panorama hollywoodiano, Paul Rudd. Ad affiancarlo un Emile Hirsch che torna into the wild, seppur con qualche chilo in più e qualche ideale in meno, anche lui inaspettatamente efficace nell’interpretare Alvin, il fratello scansafatiche della compagna di Lance.
Sperduti sugli altopiani del Texas, dopo un incendio che aveva distrutto ettari di bosco nel 1987, Alvin e Lance hanno il compito di ridisegnare delle strisce tratteggiate gialle lungo chilometri e chilometri di strade in mezzo a una natura che è al contempo incontaminata e post-apocalittica. Caratterizzati da personalità che appaiono agli antipodi, i protagonisti sono costretti a un’impossibile convivenza. Lance gode del suo esilio dalla civiltà, passando ogni momento a scrivere lettere alla sua amata Madison. Sembra convinto, come si potesse sigillare un sentimento in un barattolo di vetro, che la distanza non faccia che proteggere un amore che si configura come un sogno utopico, da vivere un giorno in Germania. Alvin, d’altro canto, non sopporta la solitudine. Incapace di sopravvivere alle scomodità della natura, approfitta di ogni attimo di distrazione per ribellarsi a una condizione che sente forzata. I suoi pensieri sembrano dedicati unicamente al fine settimana, momento in cui potrà sfogarsi girovagando per locali in compagnia di qualche ragazza.
La pellicola è permeata da una sottile, ma incisiva e poetica, malinconia. Le macerie che circondano i due protagonisti, che ben ne rispecchiano il vissuto interiore, li costringono a farsi carico di una condizione di vita che non è riducibile a una linea retta. La donna, un fantasma, che scava nella cenere per ritrovarsi, avendo perduto sé stessa insieme alla sua casa e i suoi oggetti, tracce di esperienze vissute, fa emergere l’importanza nell’esistenza di ognuno del qui e ora, del cogliere le cose della vita nel momento in cui vengono offerte e di preservarne con cura il ricordo. Anche il secondo, e ultimo, personaggio secondario, un camionista ubriacone e generoso, invita i protagonisti a uscire dai loro antitetici schemi autoimposti e vivere un’amicizia tutt’altro che irrealizzabile.
“Le avventure di Alvin e Lance”, due piccoli grandi uomini che trovano l’un l’altro in un mondo distrutto da un fuoco incomprensibile, si configurano come la possibilità, nonostante tutto, di costruire qualcosa. Di cogliere il “miracolo” della vita e non lasciarsi affogare nella cenere. Così, con inaspettata forza e energia, le linee rette si trasformano in curve gialle, in disegni su un manto stradale che si fa teatro di un rapporto che affonda le sue radici in una profonda disperazione, finalmente, condivisa.