Private

Il conflitto israelo - palestinese esplicato tra le mura domestiche nell’ esordio di Saverio Costanzo

Il regista romano Saverio Costanzo (ormai sempre più affrancato dall’associazione “mediatica” al padre, il noto conduttore televisivo) conta nella propria filmografia quattro opere di finzione, pur essendosi formato come documentarista negli Stati Uniti. Rivelatosi al grande pubblico (almeno a quello italiano) nel 2010 con la trasposizione del fenomeno editoriale La solitudine dei numeri primi, alla scorsa edizione della Mostra del cinema di Venezia, riconferma la propria originale autorialità presentando in concorso Hungry Hearts, accolto con entusiasmo dalla critica e premiato con la coppa volpi per le interpretazioni degli attori protagonisti, Adam Driver e Alba Rohrwacher. Che la direzione attoriale fosse un punto di forza evidente della messa in scena concepita da Costanzo, non lo si desume però dal sodalizio artistico (l’interprete – musa Rohrwacher, consacratasi, anima e copro, all’intensità espressiva, proprio ne La solitudine dei numeri primi) perché il regista sin dal suo esordio al lungometraggio con il film Private (Pardo d’Oro 2004) aveva focalizzato nella consistenza significativa dei corpi e degli spazi, soprattutto nella loro complementarietà cosmomorfica, la propria originale e autentica cifra stilistica.

Ai tempi Private venne salutato come una ventata d’aria nuova nel panorama cinematografico italiano (David di Donatello e Nastro d’Argento come miglior regista esordiente) per la felice coniugazione di risorse impiegate e respiro internazionale reso, a partire dall’argomento affrontato: il perpetuo e sanguinoso conflitto israelo - palestinese esplicato dall’interno delle mura domestiche. Una grande abitazione, che campeggia monolitica nel paesaggio selvatico di un fantomatico Medio Oriente (che nella realtà della location è Calabria) assurge ad emblematico campo di battaglia e resistenza, non tanto del e sul territorio, quanto della morsa esistenziale che legittima la libertà del pensiero e dell’identità individuale e collettiva.

L’incipit è già l’apice di un irriducibile scontro di tormenti, restare o abbandonare la casa presa d’assalto dalle truppe armate israeliane. Il litigio, esasperato dalla programmatica instabilità della camera a spalla, contrappone l’inflessibile capo famiglia Mohammad alla moglie e alla figlia maggiore, la prima terrorizzata e decisa a fuggire, la seconda impudentemente già votata alla lotta, sotto gli occhi inermi dei figli più piccoli.

“Essere rifugiati equivale a non essere affatto”, sentenzia Mohammad, citando quel “be or not to be” Shakspeareiano, che ora più che mai, incalza la sua indole di uomo di cultura pacifista; tuttavia, che estirpare le proprie radici sia un atto suicida, anziché di salvezza, è un concetto che risuona come sprazzo di follia dinanzi a quella insostenibile leggerezza del medesimo “Essere” al mondo, esposto alla irrazionale rappresaglia armata. Se l’incontestabile innocenza di una famiglia, archetipo di umanità, vittima delle ragioni politiche tra Stati in lotta, non è in se stessa baluardo di difesa, cosa potranno le più astratte questioni di principio sull’unità che è forza e sul( l’ auto)riconoscimento come valore fondante? Al loro sacrificio ne seguiranno altri, gli stessi che ora in gran segreto manifestano un incondizionato rispetto e orgoglio per coloro che come Mohammad e i suoi non si lasciano disgregare. Paradossalmente Costanzo riesce ad anteporre alla coesione vitale del nucleo familiare e di questo con la casa, la contraddizione dell’ esserne divenuti prigionieri. Segregati dai militari nel salotto al piano terra, la dimensione del “privato”, anticipata dal titolo, prende ad articolarsi secondo le accezioni ambivalenti e simultanee di “esclusività” ed “esclusione”. L’ostinata accettazione della convivenza forzata e regolamentata dai soldati, apre infatti il sipario sul dramma intimo dell’incomprensione tra i coniugi e tra questi e i propri figli, in uno squilibrio sentimentale di timore ed affezione, dove ancora una volta l’imposizione viene camuffata da libera scelta.

D’altro canto la ripartizione tra interno ed esterno prende a fagocitare viziosamente gli spazi, off limits non è solo il piano superiore, rigorosamente interdetto come pretesto alla fucilazione, ma perfino la soglia della camera-prigione delimita il labile confine con la vita: durante uno scontro a fuoco, preceduto da un blackout, la piccola Nada resterà per tutta la notte fuori della porta. Dentro casa, ma fuori la famiglia, perderà la parola sotto un irreversibile shock.

L’assunzione di fattezze spettrali, di presenze invisibili, ombre e proiezioni paraoniriche appare dunque la naturale evoluzione di una utopia, quale è l’eroismo di rinunciare alla fuga dinanzi al terrore. Se uno dei ragazzi vedrà se stesso imbracciare il fucile nel cortocircuito dell’immaginario stordito dalle reiterate immagini televisive, la primogenita Maryam, sublimerà l’impeto della rivolta diretta, eclissandosi in una simbiosi con la casa stessa. Nascosta in un armadio a muro, disposto sul pianerottolo di collegamento tra i due livelli della casa, schiuderà le ante come le proprie palpebre, con movimenti impercettibili ritaglierà in soggettiva campo e controcampo dei dialoghi, banalmente umani, del fondamentalismo armato, anonimo solo per necessità.

Per risalire dal particolare al generale della insoluta realtà geopolitica, Costanzo non contempla un epilogo, bensì una alienante reiterazione degli eventi. Una nuova milizia israeliana invade la casa imponendo con la medesima violenza la stessa prigionia, intimando l’espropriazione del nulla in una quotidianità già svuotata da tempo, posseduta più che in possesso della corporeità che la occupa.

Autore: Carmen Albergo
Pubblicato il 28/10/2014

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