Hungry Hearts

L'inquietante racconto di un'ossessione materna si trasforma in una riflessione sulla potenza dell'immaginario e della fantasia individuale

Mina e Jude si conoscono a New York, nel bagno di un ristorante cinese. La porta è bloccata, lui è appena stato male a causa del cibo mangiato, lei è nauseata dall’odore che si diffonde per l’ambiente. Poco dopo un cameriere riesce ad aprire la porta e a liberare i due. Inizia così Hungy Hearts di Saverio Costanzo, con un piano sequenza fisso sui corpi dei due magnifici protagonisti (Alba Rohrwacher e Adam Driver), sul loro imbarazzo e disagio, sui loro tic e piccole nevrosi. Una sequenza surreale e divertente sulla quale si agita, come uno spettro remoto e alla prima visione indecifrabile, l’idea del cibo cinese come della causa del disturbo intestinale di Jude (deve correre in bagno nel giro di pochi minuti) e di come un nutrimento dozzinale possa essere dannoso per il nostro organismo. Una sorta di spettro che, lentamente, cresce durante la visione di Hungry Hearts fino a diventare la magnifica ossessione sulla quale Costanzo ha costruito il suo film: rimasta incinta di Jude, Mina si convince che il loro figlio sia un indaco, un bambino magico destinato a capacità sovrannaturali, e inizia a nutrirlo secondo un regime alimentare rigidissimo, inseguendo l’idea di una dieta capace di preservarne intatta la purezza. Jude scoprirà, grazie ad un accertamento medico, che il figlio è malnutrito e sta crescendo male, una rivelazione che gli aprirà gli occhi sullo stato mentale nel quale sta sprofondando la moglie. Uno stato mentale, quello di Mina, che altro non è se non il perseguimento di una visione soggettiva, impossibile a realizzarsi e proprio per questo ancora più potente e destabilizzante: l’idea tutta mentale di un figlio puro che Costanzo, intelligentemente, ci mostra sempre di sfuggita, come a voler rendere il bambino un segno di oscillante significanza, in continuo mutamento secondo il prevalere dell’uno o dell’altro genitore. Dello stato di salute del piccolo sappiamo infatti solo quanto ci viene detto dal dottore, da Jude o da Mina, non abbiamo mai la possibilità di renderci effettivamente conto di un suo possibile stato alterato, al punto che è lecito chiedersi se in realtà non abbia ragione Mina, e non si tratti davvero di un bimbo magico bisognoso di attenzioni particolari. Un’ipotesi suggestiva dato quanto la fantasia di Mina sia più potente di quelle di Jude.

La bravura del regista è qui evidente nella sua capacità di trasformare un racconto intelligentemente còlto dalla cronaca (la paranoia tutta contemporanea per alimentazione, OGM, radiazioni dei cellulari) in un discorso più complesso sulle conseguenze che comporta un immaginario altero rispetto alla norma. Mina è una sognatrice, le cui visioni possiamo solo intuire o immaginare ma mai vedere, una donna messa in scena come un corpo imperfetto, dolorante, malato: quasi che il suo inseguire un’ideale di purezza la consumasse fisicamente e la gettasse in uno stato di deperimento e malattia. Saverio Costanzo arriva con Hungry Hearts a una sorprendente sintesi del suo cinema precedente: come se l’interesse per la sofferenza individuale de La solitudine dei numeri primi fosse stato sfoltito dei suoi eccessi barocchi e fosse rinato nella forma del suo primo, notevole, Private del quale ci sembra di ritrovare la stessa attenzione ai corpi degli attori, la stessa sensibilità nel lasciare che le loro interpretazioni condizionino e diano forma agli ambienti claustrofobici loro intorno. E’ proprio in virtù della grande forza teorica ed emotiva che anima Hungry Hearts che ci sembrano fuori luogo alcune aperture verso il cinema di genere: passi l’uso spinto di grandangoli a sottolineare la relazione tra corpi e ambiente, ma la messa in scena della possessiva madre di Jude come una crudele mamma noir hitchcockiana o l’esplosione melò che infiamma la scena in spiaggia tra la madre e il figlio, ci sembrano degli orpelli senza una vera necessità (forse un bagaglio dell’estetismo de La solitudine dei numeri primi), che poco hanno a che fare con la potente fantasia della protagonista (non vale qui l’ipotesi di questa aperture come parti di un discorso sull’immaginario collettivo poiché quelle di Mina sono fantasie assolutamente irraggiungibili e private). Sono comunque note a margine di un film intenso e sorprendente, a conferma dell’originalità dello sguardo di Saverio Costanzo, che sa prendersi i propri rischi e realizza con Hungry Hearts un lavoro perfettamente calato nella contemporaneità, intimo e universale al tempo stesso, dotato di un fascino ipnotico e inquietante sempre più raro a trovarsi.

Autore: Germano Boldorini
Pubblicato il 01/09/2014

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