Il Signor Diavolo
Avati torna al suo gotico padano con un film classicamente weird che gioca sul confine tra realtà e finzione affondando i denti nella superstizione popolare.
Di Pupi Avati, classe 1938, non è certo nuova la vena horror, genere in cui ha esordito e che ha continuato a frequentare lungo l’intera carriera. Non è dunque una sorpresa che il suo film del 2019, Il signor diavolo, sia un nuovo capitolo nella sua esperienza orrifica.
Nella filmografia del regista bolognese spiccano titoli di culto come La casa dalle finestre che ridono, Zeder e L’arcano incantatore, con cui Avati stabilisce i canoni di un gotico padano ambientato nella bassa, tra Emilia e Romagna: La casa dalle finestre che ridono è il più iconico, caratterizzato dal fascino putrido di una vita rurale dipinta attraverso atmosfere da giallo all’italiana che travalicano nel weird; Zeder aumenta lo sguardo sull’occulto, anche se lo stile del regista aggiorna il canone classico alle rovine moderne di un casermone abbandonato degli anni ’80; L’arcano incantatore si sposta in montagna, con una storia esoterica che ha il sapore letterario di Arthur Machen e Algernon Blackwood. Con Il signor diavolo, Avati accetta il rischio del confronto col suo horror più famoso, scegliendo di raccontare nuovamente una storia paludosa, come quella di La casa dalle finestre che ridono. Il suo nuovo film si svolge tra Venezia e i grandi spazi della laguna, adattando il suo romanzo omonimo pubblicato nel 2018, che si differenzia dal film unicamente per la backstory del protagonista e per un particolare nello scioglimento finale.
Il signor diavolo è poco moderno perché non è un horror art-house dalle immagini suggestive, né un film commerciale rumoroso e movimentato. La cura visiva c’è, ma può risultare pacchiana: una fotografia fortemente desaturata, inquadrature che colgono sì la bellezza del paesaggio ma con un’estetica pericolosamente vicina a una qualsiasi foto turistica su Instagram. Eppure, da un altro verso il film è contemporaneo proprio nel suo cogliere il ritorno di un genere, il folk horror, che è sempre più presente nella cinematografia degli ultimi anni – si pensi a The Witch, Apostolo, Midsommar, o ai meno noti Kill List, Il rituale, Hagazussa, e si potrebbe andare avanti.
In questo senso, Il signor diavolo è apprezzabile. Come spesso accade nel folk horror, Venezia e la laguna sono raccontate come territori irreali: non sono la vera città o la vera campagna del Veneto, ma nemmeno vogliono esserlo. Sono luoghi della fantasia e della memoria, con una Venezia deserta, senza turisti, nell’immediato dopoguerra; la campagna spettrale, fatta di ampi spazi sul bordo dell’acqua. È però comprensibile che alcune caratteristiche del film possano far storcere il naso ai tanti che lo hanno stroncato, liquidandolo come se fosse una mediocre fiction Rai. È vero, qualcosa nella messa in scena non torna: tutto risulta fin troppo finto, tant’è che molti personaggi non parlano neanche in veneto, ma nell’irritante italiano neutro del doppiaggio (tranne Chiara Caselli, qui alle prese con un’eccellente incarnazione gotica).
Quest’artificiosità è però sempre centrata e pertinente al contenuto del film, che riprende in parte quel canone horror decisamente letterario già sperimentato da Avati nella sua cinematografia più vecchia. Il signor diavolo non è un film che vuole raccontare davvero il Veneto o la laguna del dopoguerra. Se è per questo, non vuole concentrarsi nemmeno sulla Democrazia Cristiana, nonostante il suo gancio di partenza sia il viaggio di un uomo della DC romana che viene inviato al nord. Soprattutto, Il signor diavolo non vuole usare il linguaggio del realismo, nemmeno quello magico che sembra sfiorare. È qui che troviamo il vero centro concettuale del film, quello che lo rende interessante. Il signor diavolo parla della forza della superstizione, e lo fa nel modo più diretto possibile: mostrando al pubblico l’allucinazione superstiziosa attraverso gli occhi di chi la sperimenta, come se fosse una realtà oggettiva. I narratori con cui abbiamo a che fare non possono essere altro che inaffidabili. Lo sappiamo dal primo istante, tanto più che gran parte del racconto ci arriva da un bambino. E questo meccanismo funziona, e suggestiona.
Il signor diavolo è un film classicamente weird, ma anche anticlericale e aspramente avverso alla realtà culturale che rappresenta, quella di un mondo contadino in cui la superstizione fa parte della vita quotidiana e dell’esperienza della realtà. In questo, ricorda esperimenti del folk horror britannico di altri tempi, come La pelle di Satana, che in un certo senso si può interpretare come l’allucinazione degli abitanti di un villaggio sperduto. Il film di Avati mette però il focus sul cattolicesimo nostrano, i cui rappresentanti istituzionali (la suora, il sagrestano) sono vissuti nelle campagne del dopoguerra come mediatori tra mondo dei vivi e mondo dei morti. Avati popola il suo film di queste figure, descrivendone puntualmente l’ignoranza e allo stesso tempo l’influenza culturale conferita loro dalla collocazione che hanno in quell’immaginario collettivo.
Come i suoi personaggi, persino noi spettatori che guardiamo il film – con tutti i filtri della narrativa postmoderna che abbiamo assimilato – dobbiamo avere il dubbio che ciò che ci viene mostrato possa essere vero, all’interno del suo mondo. Questo deve accadere nonostante tutti gli elementi seminati da regia e sceneggiatura ci indichino chiaramente che le cose non possono stare così. E allora, nonostante qualche sbavatura, il risultato è coerente, efficace e felicemente gotico.