Istanbul, città divisa tra pietre e Bosforo, il fiume che la recide, tratteggiandola in due strappi di costa e linee incise che l’attraversano come il profilo di una donna. Istanbul donna, appunto, madre di popoli d’oriente e d’occidente, con tanti amanti e tanti figli da sfamare. “Sono due città simili, Napoli come Istanbul si è lasciata il suo antico splendore alle spalle…” è il pensiero di Pamuk, due città di mare, città antiche, conquistate, e continua dicendo “…ma mentre a Napoli c’è ancora traccia del passato, nei musei, nei palazzi, nelle strade, a Istanbul tutto è andato bruciato, distrutto. Eravamo troppo occupati a sopravvivere”.
Sopravvivenza, parola comune per entrambe le città, comune denominatore di storie raccontate ad altezza reale, come quelle raccolte da I Figli del Bronx, realtà produttiva indipendente napoletana, guidata da Gaetano Di Vaio, un coraggioso produttore che il Bronx l’ha vissuto veramente, non a New York ma a Napoli, sorella di tutti i Bronx di ogni città. C’è chi ci vive, chi ci nasce, chi ci muore, chi ci resta ingannato, altri ancora hanno la forza di raccontarlo; I Figli del Bronx fanno questo, raccontano la verità periferica della società, si guardano intorno e tirano i fili della realtà, la rappresentano così come la conoscono. Figli anch’essi di una città con troppi amanti. E’ proprio di loro che stiamo parlando nel documentario di finzione Quando le mule partoriranno, diretto da Michelangelo Severgnini, già autore di Ist’ mariya – Controvento tra Napoli e Baghdad, filo diretto con un’altra città, altro Bronx scovato, altra città o donna troppo amata. In questo lavoro il regista posa lo sguardo su Istanbul, città vissuta dallo stesso, e sceglie di raccontarci storie di vite singolari che vivono in un luogo troppo trafficato. Il film parla di loro, dei figli che un’antichissima città crea, di Istanbul come un luogo di passaggio e confine ed attraversamento verso altre terre, altre culture oppure oltre se stessi.
Valerio è un giovane italiano perdutamente innamorato di una ragazza turca, che però lo ha lasciato. Intraprende quindi un viaggio verso est, lo stesso di Catullo. Sidar, ragazzo curdo scrive lettere all’amico in carcere sognando di arruolarsi nella guerriglia, ma senza mai agire, e alla fine sarà il suo amico uscito dal carcere a scrivergli di aver preso parte lui alla guerriglia. Hüsna, ragazza che combatte la battaglia per l’uguaglianza e il rispetto nel suo piccolo, nella propria università, coperta da un velo che copre l’uguaglianza. Co?kun, un ragazzino di Sulukule, antico quartiere rom in demolizione per un rinnovamento edilizio, che costruisce aquiloni e che si chiede se sia possibile costruirne uno abbastanza grande da permettergli di volare per fuggire e guardare dall’alto la devastazione di cui è capace l’uomo. Shobolay, un giovane eritreo che in attesa dei documenti di rifugiato e stanco di aspettare, nonostante le rassicurazioni e il calore di una piccola comunità eritrea, decide di partire clandestinamente e di entrare in Europa.
Quando le mule partoriranno ci mostra un mondo dal basso, una Instanbul fatta di sogni e cartoni, pietre sacre dei suoi vecchi nomi e sogno poetico di denuncia, vero quanto vissuto veramente. Una voce narrante scandisce il tempo narrativo introducendo un timbro ritmico tra la poesia e la sensazione del viaggiarci insieme, cullandoci con le parole sulle storie che racconta. È Parrhesiastes, il conduttore armeno di una radio che forse rimarrà chiusa per sempre, che nel parlare di Storia, di filosofia, di vita e di morte, ci introduce alle tante storie personali che vanno susseguendosi, storie parallele che non si sfioreranno mai, ma che raccontano Istanbul e la Turchia. L’equivoco compreso nel titolo a volte viene infranto, a volte l’impossibile è più possibile, a volte anche le mule partoriscono, l’inatteso e la magia orientale ed occidentale che collimano in una sola città lasciano falle di finali attesi e non scontati. Nella città della nostalgia e della sopravvivenza, l’inaspettato è la preghiera più sperata. Terzo film analizzato dai nostri sotterranei sguardi, intenti a leggere una realtà cinematografica indipendente napoletana come quella dei Figli del Bronx, terzo colpo partito e terzo obiettivo colpito, ma questa volta sparato non con una pistola dalla matricola cancellata, ma da un robusto arco turco con frecce leggere e magiche.