Last Flag Flying
Linklater guarda all'intimità del processo di commemorazione e superamento del lutto firmando il suo film più politico, comunque in in totale continuità con la sua poetica.
«I’ve still got the scars that the sun didn’t heal/ There’s not even room enough to be anywhere/ It’s not dark yet, but it’s getting there». Sulle note di Bob Dylan si chiude l’ultimo film di Richard Linklater, Last Flag Flying, presentato alla Festa del Cinema di Roma dopo la première avvenuta in occasione del New York Film Festival lo scorso settembre.
Non è ancora buio, ma presto lo sarà. Siamo nel 2003, due anni dopo l’11 settembre, ferita ancora aperta, la “madre di tutti gli eventi” che portò ad un radicale mutamento nello scenario storico e culturale contemporaneo, così come nell’immaginario cinematografico americano. “Le cicatrici che il sole non ha rimarginato” segnano il corpo e lo spirito dei tre ex commilitoni protagonisti del racconto: Larry Shepherd detto Doc (Steve Carrell), congedato con disonore dopo aver trascorso due anni in una prigione militare, per un crimine di cui sembra essersi preso tutta la colpa ingiustamente; Sal Nealon (Bryan Cranston), che gestisce un bar in Virginia ubriacandosi tutte le sere con l’unico solito cliente, e Richard Mueller (Laurence Fishburne) che sfuggito all’alcolismo ha trovato rifugio nella parola del signore ed ora serve in chiesa come pastore. Prestato servizio insieme in Vietnam si rincontrano dopo trent’anni, dal momento che Larry, rimasto da poco vedovo, chiede loro sostegno e conforto nel viaggio che deve affrontare verso il cimitero militare di Arlington, dove verrà sepolto il figlio, a sua volta marine, morto in una missione in Iraq.
In un paese ferito e in piena crisi d’identità lo sguardo di Linklater si concentra sulla profonda contraddizione che pervade la costruzione e l’istituzionalizzazione dei miti, dei simboli e dei gesti propri dell’ideologia militare americana. Per coprire e giustificare la brutalità della guerra, soprattutto il costo umano, lo Stato erige monumenti e targhe commemorative dove recarsi a onorare la memoria, celebra feste nazionali (Veteran’s Day) e conferisce Medaglie al Valore ai propri caduti in battaglia, “le stelle più sono e meglio è”, trasformando attraverso la retorica militare il soldato in eroe “morto servendo la patria”. Rigettando la versione ufficiale, Last Flag Flying svela l’ipocrisia e la falsità delle istituzioni militari, scoprendo il simbolismo che le ricopre, la bandiera a stelle e strisce non più atta a sventolare e farsi vessillo all’ingresso delle abitazioni ma a coprire le coscienze e a nascondere le perdite. La scelta iconoclasta del Pentagono consiste nell’oscurare e censurare le immagini che ritraggono il rimpatrio delle salme dei soldati morti in missione, consapevole dell’uso (strumentale) che può venirne fatto, simbolo della disfatta e della perdita di giovanissimi ragazzi, al fine di muovere, scuotere e influenzare l’opinione pubblica, nell’epoca del pictorial turn della cultura visuale. A differenza delle immagini della cattura di Saddam, avvenuta nel dicembre 2003, e la visione dei corpi martoriati dei suoi due figli, che scorrono in televisione nei bar e locali in cui passano i tre personaggi, tra una partita di basket e l’altra, è severamente proibita la copertura mediatica delle cerimonie funebri dei caduti in guerra. È proprio concentrandosi sull’aspetto intimo e privato del processo di commemorazione e superamento del lutto che Linklater realizza il suo film più (esplicitamente) politico, in totale continuità, tuttavia, con la propria poetica, andando a costruire un altro tassello della sua personale radiografia americana, le cui basi ha cominciato a gettare a partire da Slacker.
Motore del film è il rapporto tra i personaggi, il bonding maschile che era nodo centrale in La vita è un sogno e Tutti vogliono qualcosa, in cui ad emergere sono i ricordi e frammenti di momenti passati insieme, in un viaggio, fisico ed emozionale, che li porterà non solo a ripensare alle proprie scelte, e ai conseguenti errori, ma a rimettere in gioco anche le proprie vite. La dimensione temporale, la concezione, percezione e il suo trascorso, tratti salienti del cinema di Linklater, “scolpisce” la natura dei personaggi, ne segna il cambiamento e li costringe a ri-vivere il trauma personale nel dialogo continuo tra le due guerre (Vietnam e Iraq), ri-visitando/re-visionando il passato, in cui sono ancora intrappolati, nel presente. “Il futuro è dietro le mie spalle” apostrofa Sal. L’amicizia, la fratellanza e la condivisione che accomunano i veterani così come i giovanissimi soldati, valori che prevalgono sullo spirito di sacrificio incondizionato per la patria, portano ad una disgregazione dell’ideologia militare dall’interno. La scena finale dunque, non sembra essere una scelta di compromesso o di ripensamento del discorso precedente al fine di generare semplicemente un sentimento di compassione per le vittime, quanto una ri-codifica, oltre la denuncia, del corpo militare dei suoi valori e dei suoi simboli. L’(ultima) bandiera americana piegata e riposta con cura, nuovamente, sulla bara del figlio di Larry assume dunque connotati e significati opposti, svuotandosi della retorica istituzionale per rappresentare, invece, una dimensione rituale sacra e personale, imperfetta, disillusa ma per questo più reale e meno conforme allo sterminato cimitero bianco di Arlington. Un film tanto scritto quanto sentito, verbale ma non verboso, che non rinuncia all’ironia, alla leggerezza o al sentimentalismo, ma che nel fotografare uno specifico momento della storia americana del passato traccia, incontrovertibilmente, la geografia di contraddizioni che continuano a pervadere nel nostro presente storico.