Apollo 10 e mezzo
Non tutti possono diventare astronauti: Linklater torna all'animazione in digital rotoscoping e gira uno dei suoi film migliori.
Ma poi
Chissà la gente che ne sa
Chissà la gente che ne sa
Dei suoi pensieri sul cuscino, che ne sa
Della sua luna in fondo al pozzo, che ne sa
Dei suoi segreti e del suo mondo
(F. De Gregori, Il ragazzo)
Il cinema è il riflesso di un sogno vissuto a occhi aperti. Questo è ciò che anima la filmografia di Richard Linklater, da sempre interessato a interpellare lo spettatore mediante il senso della temporalità cinematografica, il suo funzionamento, la sua resa spettacolare ed emotiva. Un processo artistico capace di produrre visioni eccessive e deflagranti, nostalgiche e malinconiche a cui si aggiunge con estrema coerenza l’ultimo tassello costituito da Apollo 10 ½ (Apollo 10 ½: A Space Age Childhood), ventunesimo lungometraggio del regista di Houston, terzo della sua carriera realizzato con la tecnica del digital rotoscoping.
Già utilizzata per Waking Life (2001) e A Scanner Darkly. Un oscuro scrutare (2006), nel primo caso per contaminare la fantascienza, nel secondo per alimentare un cortocircuito paranoico e distopico, la storica tecnica ideata da Max Fleischer, in questo caso, rappresenta l’elemento fondamentale di un discorso volto a ridurre la distanza tra dimensione onirica e realistica, e ricreare la sostanza delle atmosfere di un mondo dissolto. Conformandosi come un’ideale cerniera che traccia senza soluzione di continuità una linea di demarcazione tra il vedere e il sentire, in bilico tra straniamento e immedesimazione, l’effetto generato dall’animazione non solo progressivamente dissolve i confini che separano sogno e realtà, fondendoli in un unico grande spettacolo visivo e tradendo in un certo modo le aspettative narrative dello spettatore, ma anche cattura come in un’istantanea l’avvento del telefono a pulsanti, la gelatina, il Vietnam, il discorso di JFK, la televisione con i suoi riti e miti (da Ai confini della realtà passando per Dark Shadow fino a Il Mago di Oz) ma soprattutto l’euforia di un tempo particolare che sembra espanso, dilatato, ricorsivo, interminabile. Quell’estate del 1969, a Houston, è indimenticabile per il protagonista Stan, ultimo di sei tra fratelli e sorelle che guarda il mondo convinto di esserne al centro, ma lascerà anche un solco nella memoria di tutti gli uomini accomunati dall’identica visione della Luna e desiderosi di compiere quel grande passo in avanti.
Più che al coming of age il film guarda alla rappresentazione della prospettiva di Stan. Infatti, Apollo 10 ½ conferma e, se possibile acuisce, l’impressione che il cinema di Linklater sia sempre più votato verso forme di rappresentazione e di messa in scena tendenti a far prevalere il “figurale” sul “discorsivo”. Se quest’ultimo si presenta logico, ordinato e dotato di senso ancorandosi al principio di realtà, il figurale è invece ciò che si fa sentire prima di farsi comprendere. Questa avventura spaziale giustificata dalla NASA per far fronte a un errore matematico è un collage di ritmo, gag divertenti, affetti speciali, attimi condivisi, immagini rubate, oggetti di un’epoca in cui se ti addormentavi in macchina non ti risvegliavi più: un assemblaggio materico e sentimentale di schegge impazzite appartenenti a un passato dalla forma vorticosa che assume i contorni di un grande vuoto da colmare e su cui il cinema di Linklater è già tornato con Tutti vogliono qualcosa rivelandone fascino e inconsistenza. Risulta significativo questo scarto se pensiamo che tutta la vicenda si svolge proprio in un luogo con un’identità posticcia, dove «non c’era nessun senso della storia» come tiene a ribadire la voce fuori campo del narratore Jack Black che interpreta Stan da adulto.
A proposito della voce dell’attore californiano, volto noto del cinema di Linklater (School of Rock, Bernie) ma anche espressione di un cinema abituato a mescolare differenti registri comici (d’altra parte Black compariva già nel cast de Il rompiscatole di Ben Stiller, del 1996), si deve riconoscere profondità e equilibrio che disinnescano il meccanismo patetico del ricordo lontano (effetto molto più ricamato, invece, nel doppiaggio italiano), capacità affabulatorie che mantengono vivo il racconto facendo da controcanto alla solita, precisa, colonna sonora rock.
Differentemente da Waking Life e Scanner Darkly «contraddistinti da una sensazione di malessere, negatività, frustrazione che li rende i due film più malinconici della filmografia di Linklater [1]» Apollo 10 ½ mitiga il pessimismo, come si evince soprattutto nella seconda parte del film ma pure in alcuni momenti “magici”, come nell’episodio del flipper e della mossa segreta. Tuttavia sorprende l’insistenza con cui Stan, dopo aver raccontato fesserie alla classe, ribadisce alla propria madre che per lui, il lavoro di suo padre, è motivo di imbarazzo. Forse il sogno nasce qui, in macchina, ripensando al tenore di una realtà tutto sommato mediocre e non speciale, facendo i conti con una profonda insoddisfazione e scoprendo il bisogno, inesauribile, di credere in un sogno perché come sostiene la madre: «Tesoro, non tutti possono diventare astronauti».
Note:
[1]: Francesca Monti, Emanuele Sacchi, Richard Linklater. La deriva del sogno americano, Bietti, Milano 2016.