Tra "The Killer" e "Hit Man", ovvero di algoritmi e identità riscritte dei fantasmi melvilliani
The Killer e Hit Man riprendono per forma e tracce tematiche le intuizioni con cui Jean-Pierre Melville metteva a tema il rapporto tra identità e potere del capitale.
Lo spettro di Jean-Pierre Melville si aggira in Laguna. Evocato tra le immagini di alcuni film del festival, per la tesa di un cappello, nel controluce di una postura d’attesa, dentro al punto cieco di un mirino nascosto, il suo cinema riverbera in forme adiacenti, generando connessioni ipertestuali. In The Killer, per esempio, thriller di David Fincher su un sicario che sbaglia il colpo e innesca così una caccia all’uomo molto personale, tutto si muove a partire dall’intuizione melvilliana di scolpire fuori dalla figura dell’assassino su commissione il dramma dell’identità al tempo del capitale. Similmente a quanto avrebbe fatto negli stessi anni e su carta, dentro la Série Noire delle Éditions Gallimard, Jean-Patrick Manchette, con i suoi polar che perfettamente dialogano con questo cinema, così faceva il regista francese con i suoi noir: metteva in scena la manipolazione, la costruzione e la formattazione dell’identità moderna da parte delle strutture del tardo capitalismo, responsabile non solo della trasformazione della realtà in immagine ma anche della progressiva deregolamentazione di questa stessa realtà in un campo mercantile. Non solo però. Melville riconosceva nella grigia neutralità del killer, nella sua studiata e strategica impersonalità (ricordate l’inespressività, poi fondativa per il genere, di Alain Delon ne Le Samouraï?), la possibilità esemplare per rispondere con un ribaltamento all’istanza di controllo dei poteri, una forma di silenziosa sovversione delle pressioni del mondo sull’individuo: di fronte all’annullamento esistenziale organizzato dal capitale per gestire e amministrare le personalità, meglio annullarsi di propria mano, passare inosservati nella folla, diventare immagine tra le immagini, e lavorare dall’interno indisturbati.
Fincher segue a ruota. Il suo killer non ha la faccia d’angelo di Frank Costello, veste meno elegante, ma attua le stesse strategie di impersonalità per non farsi controllare dal potere. In questo consiste la sua fatica, come chiarisce nel monologo di apertura: non nel colpo, nell’esecuzione o nell’azione effettiva, ma piuttosto nella riflessione, nell’attesa, nel dolce far niente che precede tutto ciò che solitamente si associa a un assassinio, e poi nella successiva fase di eliminazione delle tracce, del proprio passaggio, della propria presenza. Un’intensità esistenziale tutta spesa tra “il non fare nulla” e “il non essere nulla” per comprimere la propria, comunque necessaria, apparizione in un solo fugace momento, detonato silenziosamente e senza rischi per non farsi vedere. Non più però dal potere melvilliano del vecchio capitalismo alle porte della postmodernità, quanto da quello del più nuovo capitalismo finanziario, autentico controllore e amministratore occulto delle vite individuali del nuovo millennio. The Killer usa Melville come metro espressivo ma mette in scena un cambio di paradigma: se nei film del regista francese il sicario si nascondeva nella realtà diventata immagine trasformandosi egli stesso in un’immagine e costruendo un codice di comportamento personale con cui rinegoziare la scomparsa dell’etica nel tempo della morale postmoderna, ecco che il sicario del nuovo millennio per nascondersi dalla logica algoritmica che orchestra tutto ora si trasforma invece proprio in algoritmo.
E cioè in una serie di precise istruzioni, da seguire in un ordine inderogabile, secondo un fine determinato, senza nessuna volontà, nessuna empatia, nessun interesse. L’assassino interpretato da Michael Fassbinder replica il funzionamento inferenziale con cui gli algoritmi manipolano i comportamenti, e cioè quel sistema di deduzioni con cui trarre da un piccolo insieme di assiomi un grande numero di previsioni: prima, durante e dopo i colpi si ripete mentalmente senza sosta le regole del proprio modus operandi come postulati, allineando il proprio volere a una dimensione senza volontà, di pura neutralità meccanica. Ora, per Fincher questa stessa neutralità è qualcosa di costruito, uno stratagemma isomorfista (il simile che risolve il simile) con cui l’identità gioca alle regole che le sono state imposte. Non sorprende che per lui non sia una condizione di natura, anzi, piuttosto una necessità di contesto: esattamente come il suo killer, il regista americano, tra i pochi interpreti del contemporaneo capaci di ribaltare a proprio favore le condizioni del digitale (come forse solo Soderbergh), ha scelto di nascondere la propria grafia d’autore dai controlli e dai contratti industriali (in questo caso quelli di Netflix, pronta a finanziare i suoi progetti) attraverso l’assimilazione delle logiche algoritmiche. The Killer è infatti costruito per capitoli che sembrano o potrebbero assumere la forma di episodi da una ventina di minuti, secondo una struttura seriale analitica e frammentaria adatta per una visione sempre sollecitata (il film è scritto inanellando solo scene madri).
Certo, l’adeguamento alla narrativa televisiva - già Zodiac preconizzava l’avvicinamento del cinema alla televisione – non è che uno specchietto per allodole. Costruendo le immagini attraverso continui cortocircuiti ritmici - survoltati dalla esaltata linearità televisiva ma rallentati in quadri fissi; immobilizzati in piani ieratici ma brulicanti di dettagli sempre nuovi - per mostrare il tentativo del suo killer di raggiungere un’imperturbabile impersonalità solo ed esclusivamente attraverso un continuo moto (cambiamento di costumi, spostamenti, cambi di piano), Fincher chiarisce plasticamente che la neutralità algoritmica nasconde un incredibile sforzo di un movimento, e che quindi si tratta di un costrutto illusorio, che si vorrebbe mitologico e invece è molto schietto e banale. Il suo cinema usa il digitale come occasione figurativa per esplorare ancora la dialettica tra immobilità e movimento con cui si costruisce l’identità, ma questa volta anche per dissimularsi nella struttura di controllo, nella cornice del potere, e allo stesso tempo metterne in scena la fasulla neutralità. A essere virtuale e mitologico non è tanto il potere, che è invece sempre pregno d’intenzioni basse e dissimulate, ma piuttosto l’identità, che infatti può adattarsi e costruirsi a piacimento e comunque rimane imprendibile. È quello che intuisce l’altro film imparentato (per secondo grado questa volta) con le intuizioni melvilliane: Hit Man di Richard Linklater. Difficile trovare all’interno di un concorso due film che si spiegano a vicenda, ma in questo caso fin dall’apertura non ci sono dubbi: “Quella che voi credete essere una realtà”, dice il protagonista parlando della figura del sicario su commissione, “non è che un mito”.
Professore di storia e filosofia che arrotonda lavorando per la polizia, Gary viene presto assoldato come sicario su commissione per incastrate malintenzionati disposti a pagare per un omicidio. Senza nessuna esperienza pregressa e nessuna particolare abilità nel campo, l’uomo si rivela un trasformista, capace di adattarsi a qualsiasi situazione, cambiando sempre connotati e costume a seconda dell’estrazione antropologica del cliente. Come si spiega il suo istantaneo successo? Lo chiarisce Gary stesso, con un altro rivelatorio monologo iniziale: è proprio grazie alla consapevolezza della neutralità senza carattere della propria identità, inetta e senza particolare colore, grigia e trasparente, senza nulla da dire e senza particolare connotato, che l’uomo riesce a fingersi chi preferisce a seconda della necessità. Quando, sullo sfondo delle immagini dei killer più famosi della storia del cinema (tra cui chiaramente quelli di Melville), il professore spiega che la figura dell’assassino non è che un mito, facilmente interpretabile, appare chiaro che il vero mito di cui sta parlando sia quindi quello dell’identità. Linklater - regista da sempre interessato a mettere in luce le forme di costruzione dell’identità attraverso le immagini – sceglie qui, sempre melvillianamente, di usare la topica dell’assassino per scrivere una commedia nera sui processi di identificazione. E cioè sui processi dialettici (Fincher direbbe di movimento) con cui l’identità costruisce se stessa per relazionarsi con il mondo.
Hit Man spiega e completa in qualche modo The Killer. Perché chiarisce quell’intuizione fincheriana sull’identità come mito polare, asintoto irraggiungibile sempre un attimo più in là della presa, opposto a qualsiasi principio a priori che si dà come assoluto presente. In questo senso il film di Linklater, oltre che melvilliano, è anche molto più alleniano (l’Allen di Zelig per capirci) di quanto non sia Coup de Chance, altro film in concorso: non tanto per come ragiona sul rapporto tra coerenza identitaria e immagini del mondo – integrando come si diceva sequenze di altri registi nelle proprie – ma proprio per il racconto dell’identità come un costrutto più o meno possibile, che rimane sospeso tra circostanze del tutto estemporanee, quindi entropiche, e forme di congelamento e controllo sociale più o meno istituzionale. Come Gary, che si spinge troppo in là nella propria finzione, diventa complice d’omicidio con la donna di cui si è innamorato e poi assorbe il trauma con l’aiuto della controparte femminile. Entrambi i film si chiudono comunque allo stesso modo su una forma di compromissorio happy ending di coppia, in cui i (veri o finti) sicari protagonisti, dopo mille peripezie e cortocircuiti dicono di aver raggiunto la tranquillità, un nuovo status quo identitario. Lasciando però intravedere l’ombra di un irrisolto, che rompe l’impersonalità marmorea dei connotati (sia Michael Fassbinder che Glen Powell neutralizzano perfettamente le espressioni per lasciare intravedere appena appena un lieve sintomo fuori posto) o con un tic o con la confessione spiritosa di un cadavere nascosto tra le righe, come la voce scomoda di un accordo prematrimoniale.