3 From Hell
Zombie torna agli albori del suo cinema e cerca una chiusura alla saga della famiglia Firefly, ma l’operazione ha il retrogusto amaro di un innocuo déjà-vu infarcito di facce già viste, battute già masticate, bossoli già esplosi.
«Hello America, did you miss me?» sembra la sardonica dichiarazione di intenti, rilasciata ai tabloid da una delle tante rockstar redivive, prima di tornare a calcare i palchi dopo anni di silenzio, e in certo senso è proprio così, quando a pronunciarla è un personaggio partorito dall’immaginazione distorta dell’eclettico musicista e cinefilo Rob Zombie. Tuttavia, in questo caso, la missione del regista non è quella di resuscitare la sua storica band, i White Zombie, ma la sanguinaria Famiglia Firefly, protagonista indiscussa di questo 3 From Hell, terzo atto dell’iconica saga cinematografica aperta da La casa dei 1000 corpi.
Quattordici anni fa l’ultimo fortunato episodio, La casa del diavolo, dove credevamo di averli dati per morti e sepolti sulle note dei Lynyrd Skynyrd, ritroviamo il clan dei reietti del diavolo: Capitan Spaulding (Sid Haig), Otis (Bill Moseley) e Baby (Shery Moon), nelle vesti di “rockstar del male” stile Charles Manson, alle prese con il “prezzo” della notorietà; prima dietro le sbarre di un carcere di massima sicurezza, poi lungo le strade del Messico. Sopravvissuti, disorientati ma soprattutto invecchiati, i celebri assassini, dopo una sbrigativa evasione, vengono scaraventati di nuovo su una decapottabile in fuga attraverso l’America, mentre una schiera di fan li osanna come eroi della controcultura hippy e una gang di grotteschi luchadores – vedi The Haunted World of El Superbeasto – li attende in cerca di vendetta.
3 From Hell vorrebbe essere un sorta di viaggio a ritroso – intrapreso da Zombie – alla riscoperta delle proprie radici e degli antichi fasti, dopo l’immeritato flop de Le streghe di Salem e la tiepida accoglienza riservata al suo ultimo lavoro, 31: un’occasione preziosa per rispolverare il “fuoco sacro” degli esordi, dirigendo un film “sporco e cattivo” degno di quella saga che gli era valsa il titolo di Quentin Tarantino del cinema horror. Invece, ci ritroviamo davanti a una riunione di famiglia che dovrebbe essere a colpi di proiettili e invece spara a salve. Infatti nonostante il prologo intrigante, incentrato sulle vicissitudini carcerarie di questi antieroi in preda ormai a un delirio di onnipotenza, funzioni, dando la possibilità a Zombie di dimostrare, ancora una volta, la sua innata abilità nel ricreare le atmosfere, gli umori e le contraddizioni della summer of love dei serial killer, una volta entrati nel vivo dell’azione, quando il film dovrebbe decollare, si perde completamente il senso dell’orientamento. Per gran parte della pellicola giriamo a vuoto intorno ad un susseguirsi di azioni, di luoghi, di circostanze che per quanto avvincenti – poche – e ben girate – la maggior parte – restano comunque sconnesse tra di loro e prive di qualsiasi fondamento concettuale. Soltanto l’agognato duello all’ultimo sangue tra le due fazioni di criminali, i luchadores capitanati dal leader Aquarius e la banda Firefly, riesce di colpo a catturare l’ attenzione degli spettatori, giusto il tempo necessario per assistere allibiti ai titoli di coda finali.
È difficile credere che dietro quest’operazione ci sia la mano del regista che nel 2003, sulle orme di Tobe Hooper, aveva esordito con un piccolo cult come La casa dei 1000 corpi : un greatest hits di morte e follia dai ritmi sincopati e dai colori sgargianti, capace di scartavetrare la sensibilità del pubblico in sala grazie a una dose massiccia di violenza, sadismo e autoironia. Parliamo dello stesso autore che poi, due anni più tardi, sarebbe riuscito a bissare il successo con uno spietato road-movie, elevando una tribù di redneck psicotici al rango di “Santi Fuorilegge”, accanto a nomi del calibro di Jesse James e Sundance Kid. Lo sottolineiamo perché in questo 3 From Hell, che dovrebbe chiudere idealmente la trilogia, non c’è traccia di nessuno di questi elementi. Tutta l’operazione ha soltanto il retrogusto amaro di un innocuo déjà-vu, infarcito di facce già viste, di battute già masticate, di bossoli già esplosi. Perché non bastano le strizzate d’occhio a Sam Peckinpah (Il mucchio selvaggio) e Walter Hill (Ricercati: ufficialmente morti), le guest-star di rito (Danny Trejo, Jeff Philip Philps) o le consuete gemme musicali di sottofondo (In-a-gadda-da-vida degli Iron Butterfly) a salvare il film dal suo nemico più grande: la prevedibilità.
A risentire di questo generale clima di stanchezza sono anche le interpretazioni dei tre protagonisti che, orfani della carismatica figura di Sid Haig – scomparso all’inizio delle riprese – più che dei “reietti” assomigliano agli “scarti” del diavolo: una sorta di suicide squad in salsa spaghetti-western. Bill Moseley è ridotto a recitare la parodia di se stesso, mentre la new entry Richard Brake, nei panni del fratellastro Foxy, ha l’ingrato compito di colmare il vuoto siderale lasciato dall’assenza improvvisa di Capitan Spaulding. L’unica eccezione è Baby, il personaggio di Shery Moon, che perfettamente a suo agio nel ruolo di folle amazzone schizofrenica, scatena tutto il suo potenziale distruttivo regalandoci l’interpretazione più originale e adrenalinica di un film che si lascia vedere ma si finisce inevitabilmente per dimenticare.
In definitiva, possiamo dire che il gioco è bello quando dura poco e quello di 3 From Hell dura anche troppo. Perché per quanto possa sembrare entusiasmante all’inizio tornare sul “luogo del delitto” e ritrovare delle vecchie conoscenze, quando si arriva all’esasperazione ci si deve fermare, tornare seri, altrimenti il rischio è quello di farsi del male. La nostra speranza è che Rob Zombie riesca a siglare presto un longevo patto con il diavolo, altrimenti difficilmente riuscirà a ottenere indietro l’ispirazione perduta.