Stop the pounding heart
Le inespresse passioni e i conflitti della giovinezza all’ombra della Bibbia.
Capitolo terzo della trilogia texana. Stop the pounding heart ci invita all’immersione nella vita di una comunità profondamente religiosa nel cuore dell'America sudista: a fugare ogni dubbio, un bambino di nome Dixie, uno degli undici fratelli della protagonista. Lei è Sara, una giovane ragazza non ancora maggiorenne. La vediamo mungere le capre, pregare, frequentare il catechismo e le lezioni in casa (come gli altri membri della comunità, lei non è stata educata a scuola), insegnare i medesimi precetti a fratelli e sorelle. Fedele ai dogmi di una religione che ai nostri occhi appare arcaica e lontana, eppure piena di incertezze e dubbi, come impone la giovinezza. Le viene insegnato che la donna deve sottomettersi all'uomo e che la Bibbia è un libro di scienza e verità universali, una severa maestra con cui deve negoziare un eventuale percorso di dubbio ed emancipazione.
Minervini costruisce assieme ai personaggi – sospesi tra finzione e autorappresentazione – una storia corale che si sedimenta attorno a Sara e alla silenziosa attrazione per un giovane torero. A lato, genitori, famiglia, poligoni di tiro e riti sociali della provincia americana della Bible Belt, la “pancia” di una nazione che partorisce le più profonde contraddizioni d’America. Si può definire in una parola il cinema di Roberto Minervini? Pasoliniano, come quello del suo autore preferito? Neorealista (con i prefissi del caso), per lo sguardo consapevole e l'ideologia del vero che lo attraversa? Lirico, poetico, etnografico? Il fascino dell'opera di Minervini sta innanzitutto nella difficoltà di situarlo. Prismatico ed enigmatico, il suo cinema si colloca su uno spettro amplissimo di possibilità e suggestioni cinematografiche. Abbattuti gli steccati ed eluse le categorie, le immagini scorrono libere e rivelano fulminee verità psicologiche, etnografiche e sociali.
Il cuore che batte dietro le immagini di Stop the pounding heart è la ricerca del vero, a cui le immagini tendono, e che qui esplode in scenari dalla bellezza pittorica, intrisi di erba e ruggine. Un cinema di immersione, appunto: accompagnati da Sara, scaviamo a fondo nella storia di un luogo e di un popolo attraverso un cinema il cui metodo, rigorosissimo, sta nel rifiuto dei confini tra verità e finzione. Un cinema di autonarrazione, come lo ha definito Minervini stesso. O almeno, narrazione collettiva, costruzione di un rapporto il cui esito è un documento audiovisivo che qui trova un equilibrio ideale tra bellezza e autenticità.
Il regista, come nelle sue opere precedenti, gioca su territori neutri, tra finzione e documentario. In questo caso, come nel precedente Low Tide, non c'è un vero e proprio amalgama tra attori professionisti e uomini presi dalla strada, ma una comunità di persone vive e reali e che il regista ha coinvolto in un processo creativo collettivo. Un cinema di finzione che germina dal documentario performativo: autore e protagonisti ci guidano verso un viaggio il cui senso profondo, più che in molto altro cinema, è negoziale e richiede immensa fiducia nello sguardo dello spettatore, nella sua capacità di capire ciò che Minervini cerca di fare e nella disponibilità ad abbandonarsi alla performance.
La macchina da presa pedina i personaggi, zavattinianamente, ma li sa abbandonare quando è necessario, per aprirsi a un quadro più ampio e di respiro etnografico. Sara è dominata dall'ambiente ma, nel film come nella vita reale, esso è troppo angusto per contenerne la curiosità e la sete di vita. Queste incertezze si manifestano come sguardi, esitazioni, silenziosi conflitti; anche le immagini sono ruvide, catturate in luce naturale, tremolanti; forse è per questo che sono così struggenti ed ipnotiche. Talvolta, sembra di vedere lampi del cinema di un altro grande maestro della reticenza: Terence Davies.
Il regista coglie ambiguità e tentennamenti, senza forzare la mano, con lo spirito del documentario leggero (troupe ridotta al minimo e metodologia che ricorda da vicino Frederick Wiseman). La collaborazione con la montatrice dei fratelli Dardenne, chiaramente, è una scelta di stile e un manifesto di intenti. Alla base del film c'è un profondo umanesimo, una fiducia nella vitalità di questi uomini alla periferia del visibile. Un umanesimo opaco e ambiguo, che rifiuta la facile leggibilità della fiction in favore del canovaccio e delle piccole rivelazioni.
Autoriale e testimoniale, descrittivo e lirico al tempo stesso, Stop the pounding heart sorprende per la sua densità poetica e costituisce una delle più vitali elegie di un popolo del cinema recente.