Ci sono nuvole di polvere nell’aria, pulviscolo legnoso che ruota controluce mentre alcune seghe circolari finiscono di sistemare le assi del lungo pavimento montato a coprire la strada. Nel frattempo trapani elettrici avvitano le ultime transenne che circondano il red carpet, mentre altri operai montano e collegano le luci della passerella che conduce alla Salacinema 2. Mancava solo un giorno alla vera apertura ma uno degli eventi più attesi era già a portata di sguardo; mentre tutto attorno a noi il festival finiva di prepararsi e costruirsi, pronto ad accoglierci per una lunga settimana, ci siamo diretti ieri sera in sala pronti ad assistere alla proiezione stampa de Il canone del male (Lesson of the Evil) , anteprima del film che Takashi Miike presenterà tra poche ore in Sala Sinopoli in prima mondiale.
Nucleo della vicenda è il liceo Shinko, una scuola privata come tante altre, almeno in apparenza. Tra coppie di ragazzi troppo timidi per confessarsi i sentimenti reciproci e test ricopiati grazie ai cellulari si annida infatti il male. E non risiede nel professore di ginnastica che ricatta le allieve per molestarle sessualmente, o in quello di fisica che si sente un perdente e guarda con odio e invidia chi crede essere meglio di lui, o ancora in un altro insegnante coinvolto in una storia d’amore con un suo allievo. Pur alimentando il senso di totale nichilismo che permea la pellicola, queste figure d’autorità fallace nulla sono in confronto al recente acquisto dell’istituto, Seiji Hasumi, insegnante di inglese deviato e contorto che sotto un bellissimo viso e modi gentili e affascinanti nasconde la mostruosità del caos più puro e violento.
Il più grande errore che si può fare nel visionare un film di Takashi Miike (specie dell’ultimo Miike) è approcciare l’opera aspettandosi qualcosa di preciso; oltre ad essere uno dei registi più veloci al mondo l’autore di Audition è anche tra i più eclettici e vari, coerente a sé stesso ma capace di reinventarsi in molteplici ambiti. Nonostante ciò il suo percorso personale pare aver imboccato una strada molto netta; dallo splendido 13 assassini sembra di avere di fronte un Miike effettivamente più maturo e calibrato, impegnato in una rarefazione del gesto registico tesa ad assottigliarsi fino a raggiungere un’impossibile perfezione. Rimane ovviamente la voglia di affondare nel torbido e nell’estremo, assieme alla capacità di mantenere uno sguardo privo di violenza gratuita fine a se stessa; nonostante ciò domina l’impressione di trovarsi di fronte ad un autore più maturo e completo rispetto al passato. E Il canone del male non smentisce quest’ipotesi, pur perdendo qualcosa rispetto allo spessore immane di 13 assassini.
Spiazzante e impazzito come una casa degli specchi esplosa dall’interno, Il canone del male sembra contenere dentro di sé tre diversi film, cambiando la propria natura in nette alternanze stilistiche. La prima parte ricorda per molti versi Confessions di Tetsuya Nakashima, specie per via di un ingannevole flashback iniziale che suggerisce un male annidato negli alunni adolescenti della scuola; una fotografia eccessivamente morbida descrive in un constante azzurro soffuso la quotidianità dell’istituto, mentre una narrazione tellurica immette sotto la superficie scosse quasi invisibili di violenza e anormalità. La sensazione che ci sia qualcosa di profondamente sbagliato in quest’ordine naturale emerge quindi con la seconda parte, in cui la potenza si fa atto, la violenza inizia ad fuoriuscire ma la conduzione generale sembra fredda e chirurgica, tanto asciutta da far pensare ad un Miike estremamente algido e controllato. Arrivano infine alcuni flashback e incubi allucinati e granguignoleschi, che smentiscono in buona parte quest’idea e portano sullo schermo l’esplosione di una mente malata, trascinando nel loro gorgo di sangue e frattaglie l’ultima parte del film, il massacro.
Il canone del male è, in pieno stile Miike, uno film ironico eppur nato dal pessimismo più assoluto. Non vi è nessuno che si salvi dei personaggi che abitano il liceo Shinko, ognuno di essi manifesta egoismo e meschinità e, per quanto riguarda i professori, profonda incapacità a gestire il proprio ruolo di guida e tutore. La bassezza con cui certi studenti interagiscono tra loro pur di provare a sopravvivere ricorda le violenze di Battle Royale, ma al contrario del grande film di Fukasaku qui il massacro non si fa tanto ipostatizzazione di una società angosciosamente atomizzata e ipercompetitiva, quanto piuttosto collasso dell’autorità a favore del dilagare del male, che pur avendo origini interne cresce curiosamente in nuce alla cultura anglosassone. Tutto il film del resto intrattiene un rapporto ambiguo con il mondo occidentale, specie per il mito di Huginn e Muninn, i due corvi di Odino che paiono tormentare il protagonista, o La ballata di Mackie Messer, la canzone tratta da L’opera da tre soldi di Brecht-Weill. Oltre ad un fucile organico di cronenberghiana memoria, è proprio questo inquietante motivo a regalare le scene più affascinanti del film, specie per la capacità espressionista di Miike di calarlo nella diegesi del racconto e farne motivo di un perturbante che resta. Come molte altre scene di un film che se avesse giocato meno con l’autoironia e il grottesco sarebbe forse apparso ancora più radicale e memorabile. Comunque sia, Miike,Müller, chapeau, ottimo inizio.