Per le culture dell’Estremo Oriente la calligrafia non è l’arte di scrivere. Labile compromesso tra pittura e scrittura, la calligrafia è esercizio di stile, ripetizione e reinterpretazione di ciò che è già stato scritto. Un gioco di vuoti e pieni che si reinventa ad ogni movimento di pennello, una relazione dialettica tra modello e copia. E’ nella cornice calligrafica che il film Ichimei (distribuito negli USA con il titolo Hara-Kiri: Death of a Samurai) deve essere collocato. Si tratta di una cautela necessaria per evitare di fraintendere questo film di Takashi Miike, presentato al festival di Cannes 2011 ed uscito con scarsissimo successo negli Stati Uniti nel luglio 2012. L’esercizio calligrafico di Ichimei può essere letto solo alla luce del suo modello, Harakiri (1962), il capolavoro di Masaki Kobayashi che ha decostruito e polverizzato l’intero genere del cinema di samurai.
Gli elementi della narrazioni, nei due film, sono praticamente gli stessi: un samurai senza padrone, Hanshiro (Ebizo Ichikawa), chiede di potersi uccidere (la pratica del suicidio rituale, seppuku o harakiri che dir si voglia) nella dimora di un signore feudale. Per dissuaderlo gli viene raccontato un episodio avvenuto pochi mesi prima: un giovane samurai si presenta alla stessa porta con il medesimo obiettivo di porre fine alla propria vita. Uno dei tanti che finge il suicidio per spillare un obolo di pietà o per chiedere lavoro, pensano i guerrieri. Pratica poco onorevole: il giovane samurai viene sacrificato in modo che sia da esempio per tutti, e costretto a commettere seppuku con la propria spada, che scopriamo essere un semplice bastone di bambù.
Miike è un regista torrenziale, estremo sperimentatore di immagini, che con Ichimei chiude il ritratto della violenza feudale già avviato con 13 Assassini. Se quest’ultimo metteva in scena una violenza grafica e sanguinaria, la storia di Ichimei è un esercizio di castità e contemplazione. E così, il giovane samurai morto non verrà vendicato da Hanshiro – che scopriamo essere parente stretto del ragazzo così crudelmente ucciso – con il sangue e la violenza eroica a cui siamo abituati. Ad essere ucciso sarà il rituale, l’orgoglio, l’onore come maschera che giustifica diseguaglianze e schiaccia gli ultimi. Il fendente di Kobayashi – e di Miike che ne mima i movimenti – è al cuore stesso della tradizione e del potere.
Lo stile di questo esercizio cinematografico è impeccabile, geometrico, composto da inquadrature fisse e rare, morbide panoramiche. Immagini spesso identiche, fin nei minimi dettagli, a quelle del film di cinquant’anni prima. Ma il regista a volte si smarca dall’illustre maestro e cerca di trovare una propria, personale scrittura: insistendo sui dettagli dell’armatura rossa – simbolo e totem dell’onore del clan, gigantesco fallo di un patriarcato di sangue – oppure dilatando il cortile dell’esecuzione, resecandolo in decine di angoli e facciate ed esaltandone la sontuosa scenografia repressiva. Il cortile è il teatro, la piazza di una città in miniatura. Microcosmo sociale, modello finemente cesellato della società tutta.
Ma è soprattutto nella drammaturgia che Miike trova un percorso alternativo a Kobayashi: amplificando lo spettro drammatico e sviluppando maggiormente la storia del giovane samurai, Miike cerca di costruire un melodramma di cappa e spada. La dimensione contemplativa del film è soverchiante, ostentata: la lentezza dello svolgimento giunge all’immobilismo quasi totale a metà del racconto. Una scelta purtroppo infelice, che rompe l’equilibrio drammatico del film originale. La storia di Harakiri era il mito senza tempo del singolo che si riscatta dalla struttura sociale ipocrita e opprimente. Con inesorabilità sillogistica, Kobayashi ci indicava le conseguenze di un’etica fondata su onore e rispetto fanatico della gerarchia. L’ambiguità del film era una rivendicazione di relativismo etico e umanesimo razionalista. Miike cambia le proporzioni, e l’aderenza perfetta di sguardo e materia narrativa viene meno. La regia agile e intelligente di Kobayashi, dai tratti precisi ma curvi e impetuosi all’occorrenza, ne esce raddrizzata e asciugata, ma depotenziata e smagliata nei punti di giuntura.
Il combattimento che chiude il film ne è l’esempio più fulgido: se in Kobayashi geometrie e gerarchie si spezzano nel caos della lotta disperata e negli sguardi vertiginosi che deformano lo spazio – la disposizione spaziale del potere –, Miike resta distante e preferisce una coreografia impeccabile. La danza è seducente, ma il confronto è impari. E allora della ritualità ostentata del film di Kobayashi – l’umiliazione tre volte ripetuta dell’onore dei membri del clan, la scelta accortissima di cosa mostrare e a cosa, invece, alludere soltanto – restano solo le tracce.
Proprio nel mezzo della storia l’attento Miike giunge ad una contraddizione: lo stile del film – la coerenza del suo mondo – cede nel momento in cui l’autore viene tentato di rappresentare l’orrore e la violenza senza alcun pudore. Per due volte la distanza dell’osservatore cede immediatamente e impatta con le immagini dell’orrore: una scorciatoia drammaturgica, quella imboccata dal regista, che avrebbe potuto evocare situazioni ed emozioni altrettanto forti con una maggiore eleganza.
Se di esercizio calligrafico si tratta, Ichimei è quindi composizione solo parzialmente riuscita, artificiale e relativamente priva di dinamismo interno. Dalla regia alla sceneggiatura, alla colonna sonora (neanche Ryuichi Sakamoto impressiona, questa volta), l’opera non regge il confronto con il modello. Il film resta un esercizio interessante di stile: vuoto come l’armatura di orgoglio che incarna l’orgoglio del clan. Vuoto come quello stile privato del relativo contenuto che lo puntelli e lo esalti. La bellezza dell’involucro è comunque tale da meritarne la contemplazione.