E’ ingannevole il titolo di questo film di Bakhtiar Khudojnazarov, Aspettando il mare. Ingannevole perché suggerisce un ordine di attesa, una stasi buzzantiniana portata avanti in mezzo al deserto, su quelle sponde in cui un tempo si poggiava il mare e ora non più. Aspettando il mare invece non è un film di indugi e fermate, quanto piuttosto un racconto estremamente vettoriale di movimenti e speranze, di una marcia attraverso deserti di roccia e sale alla ricerca di un fantasma illusorio. E’ un film di fede costruito sul modello della parabola religiosa.
Murat è un giovane marinaio di una piccola città costiera, capitano di uno dei tanti pescherecci con cui la comunità trova il suo sostentamento. Ha un carattere particolare Murat, ottimista ma anche molto testardo, e sarà questa combinazione a farlo uscire in mare anche nel giorno in cui è attesa una tempesta, il giorno del suo naufragio. Unico sopravvissuto all’accaduto si risveglierà su di una spiaggia molto lontana da casa, dalla quale intraprende un viaggio di ritorno lungo anni. All’arrivo però lo attende il rancore di tutta la comunità, che lo accusa non solo di aver portato alla morte il suo equipaggio (oltre alla sua stessa moglie, che aveva fatalmente fatto salire a bordo proprio quel giorno) ma addirittura di aver offeso il mare con il suo gesto. Un mare che infatti è sparito poco dopo l’accaduto, lasciando dietro di sé una distesa arida e persone sperdute, che in tale deserto cercano di ritrovare sé stesse. Affermando di poter rintracciare vivi sua moglie e il suo equipaggio, Murat decide di tornare allo scheletro della propria barca – divenuto una sorta di mausoleo funebre – per ripararlo e trasportarlo a mano verso il mare. Il suo diviene così tanto un percorso di redenzione personale quanto l’avvio di un processo di rielaborazione collettiva, un tentativo di espiazione atto a ritrovare uno scopo e un senso alla propria vita.
L’idea su cui si poggia Aspettando il mare, film di apertura di questa settima edizione del Festival capitolino, pare esser nata dall’effettivo prosciugamento del lago Arial, la cui scomparsa anni fa fu per tutta la regione un immane disastro ecologico. Tuttavia, a partire dalla non collocazione spazio-temporale della narrazione, è evidente come Khudojnazarov abbia voluto evitare un discorso di denuncia ecologica per sfruttare invece l’idea in un’accezione religiosa ed esistenziale. La barca da smuovere verso il mare e il calvario di Murat nel deserto costituiscono infatti un’architettura simbolica di chiara discendenza biblica; tutta la storia è da leggere nei termini di una parabola, chiave di lettura esplicitata dal regista con una citazione finale e alcune soluzioni narrative. Paralleli fin troppo espliciti in realtà, che bloccano la storia nella sua dimensione allegorica senza arrivare a degli sviluppi veri e propri. Il finale del film, con l’arrivo improvviso del mare, pare infatti calato dall’alto e all’improvviso, irrisolto nel suo rivelare la debolezza di una sceneggiatura tutta arrovellata attorno ad un simbolo che una volta esplicitata la sua funzione porta la vicenda ad esaurirsi staticamente.
E’ per questo che troviamo molto più interessante il lavoro che Khudojnazarov svolge in sede di regia, dove si rivela capace di sfruttare la location del deserto tanto per creare grandi e possenti immagini quanto per lavorare chirurgicamente sui generi hollywoodiani. Aspettando il mare è infatti per molti aspetti un pastiche cinematografico, un organismo modificato capace di fondere dentro di sé i miti e le immagini del western, le suggestioni post-apocalittiche in stile Mad Max e richiami alla narrazione d’avventura anni ’20 che a noi tanto ricorda le peripezie di Corto Maltese. Più volte in corso di visione si ha l’impressione di assistere ad un film orientale, cinese o coreano in particolare, proprio per l’odierna abilità dimostrata da queste cinematografie a fondere tra loro generi e suggestioni diverse (specie partendo dal western).