L’elogio della velocità: uno, due, tre colpi. Nell’ultimo film di Michele Placido non c’è neanche il tempo di respirare che già siamo in un altro luogo, proiettati dentro l’azione da un montaggio che corre senza sosta fino al magnifico duello finale. Niente definizione dei personaggi, buchi di sceneggiatura clamorosi eppure il film non ne risente, anzi: sembra fare della propria brama di immagini e di azioni il suo punto centrale, autoalimentandosi e acquisendo forza ed energia ad ogni cambio di passo. E nel film ce ne sono molti: uno degli aspetti più sorprendenti de Il cecchino sta nel suo continuo evolversi e cambiare pelle. Inizia come un poliziesco, vira verso il thriller, abbraccia per pochi momenti il melò, per poi toccare i traumi della guerra in Afghanistan. Dentro il film ce ne sono almeno quattro che convivono e coesistono insieme. In alcuni frangenti ci si sente frastornati e un po’ confusi per l’alto numero di personaggi e per tutte le svolte della narrazione. Ma è uno stato d’animo appagante: come il film anche gli spettatori traggono forza dalla sua incontenibile vitalità che si ciba del noir di Melville per poi “tradirlo” con una svolta tipicamente postmoderna.
L’assassino di ragazzine interpretato da Olivier Gourmet trascina il film negli abissi più oscuri trasformando quello che sembrava un tipico poliziesco, in un noir marcio e violento. Nel duello finale – che cita Leone – troviamo tutte le coordinate di un cinema che non è mai uguale a se stesso e proprio per questo sorprendente. Non un film di guardie e ladri ma un’opera sul trauma e il rimosso: i personaggi si scambiano identità e ruoli per vedere cosa si prova a stare dall’altra parte e soprattutto per (ri)vivere eventi lontani nel tempo e nella memoria che la guerra non ha permesso di vedere. Al contrario di Vallanzasca, pienamente inserito dentro il genere poliziottesco italiano questo guarda alla Francia, e non solo per i riferimenti cinematografici. Tutto il film può essere letto infatti come una sorta di rivincita del cinema italiano su quello francese che si trasferisce a casa loro, ne occupa lo spazio, reinventa le coordinate di un genere per appropriarsene e alla fine, in uno dei pochi momenti davvero distensivi, mostra una super diva come Fanny Ardant fare coppia con Placido, che interpreta un meccanico immigrato. Non sarà al livello di Vallanzasca e forse neanche di Romanzo criminale, ma questo Il cecchino dimostra una volta di più come Michele Placido sia uno dei pochissimi cineasti italiani di genere duro e puro in grado di mettere in scena sequenze d’azione che non hanno nulla da invidiare a quelle dei colleghi stranieri.