La ragazza senza nome

Il film dei Dardenne che non ha convinto a Cannes è una lucida e fredda indagine alla ricerca di colpe individuali per problemi universali.

Un mezzo per auscultare anche i battiti più flebili della realtà, il respiro dell’umanità in affanno, le irregolarità premonitrici. Per indagare i segni meno appariscenti di malattie sociali ormai inveterate, cronicizzate, perché mai prevenute o curate. Fiorite nel disinteresse, esplose per inadempienza.

Il cinema dei fratelli Dardenne non è un farmaco salvavita, un anti-biotico che sopprime il brulichio microbico delle nostre esistenze o una terapia d’urto da corsia d’emergenza. È uno stetoscopio, atarassico e discreto, che sonda l’epidermide con una pazienza analogica, quasi anacronistica, alla ricerca dei focolai d’infezione. Lo stesso stetoscopio che i registi pongono tra le mani della dottoressa Jenny Davin (Adèle Haenel) nel loro ultimo film, La ragazza senza nome, presentato senza grandi convincimenti al Festival di Cannes e per questo rieditato prima dell’uscita in sala.

D’altronde la storia di Jenny, medico che rinuncia agli agi borghesi d’una brillante carriera (di cui rimane, simbolicamente, soltanto il preludio tintinnante del brindisi di benvenuto) per continuare a lavorare in ambulatorio, luogo di sofferenze tanto più tangibili quanto meno appariscenti, è un po’ la storia di Luc e Jean-Pierre: lei, costretta a seguire i passi della propria coscienza, alla quale rimane inchiodata a causa di un senso di colpa insopprimibile; loro, incapaci di fare a meno dell’impegno sociale, dimostrando una coerenza che altro non è se non la conferma di una scelta di fondo, inderogabile, che attraversa come un magma silente tutta la loro filmografia.

Ed è proprio nel silenzio dell’ascolto che emergono parole rintanate negli animi ripiegati, responsabilità ripudiate, colpe da cui redimersi.

Conformemente ai precetti del rapporto medico-paziente, con una sobrietà scevra da pericolosi sentimentalismi che comprometterebbero la lucidità dello sguardo scientifico – un professionista deve riuscire a controllare le proprie emozioni, spiega la dottoressa al giovane stagista, attonito dinanzi alle convulsioni di un ragazzino in sala d’attesa – Jenny continua a mostrare con coraggio la radiografia del suo imperdonabile errore, il frame che ritrae il volto della ragazza senza nome alla cui morte ritiene di aver contribuito. Nella speranza di giungere ad una diagnosi, ad un riconoscimento che segnerebbe l’unica, possibile redenzione salvifica. La sua è un’etica che non fa sconti e non ricerca comodi nascondigli, che non teme di addossarsi le colpe con cui nessuno, neanche i diretti responsabili, sembra voler fare i conti.

Il mistero che avvolge la morte della giovane africana cui Jenny non ha voluto aprire l’ingresso dell’ambulatorio, un’ora dopo la chiusura, favorendone così indirettamente il triste epilogo, e l’indagine che segue, non è che il pretesto per costruire un giallo morale, una ricerca paziente di responsabilità che, come nella realtà, finiscono per essere sistematicamente eluse. Il microtesto filmico, allora, diventa chiara mise en abyme del macrotesto della storia contemporanea europea – su tutto l’indifferenza, quando non l’ostilità, ai migranti, morti in clandestino anonimato come la ragazza del film e in costante attesa di qualcuno che ne prenda realmente atto –, delle cui problematiche sociali i Dardenne si sono sempre (pre)occupati. Ma se l’intento è, come sempre, nobile e ammirabile e lo stile documentaristico, con la solita mdp a spalla che non si stacca dai personaggi, piacevolmente asciutto e funzionale al racconto, a non convincere del tutto è il ritmo della narrazione, ancora troppo sbilanciato a favore del dettaglio e del particolare caratterizzante e per nulla suggestionato dalle possibilità offerte dall’incursione, sempre molto controllata – quasi repressa, sospesa – nel detective movie.

Nonostante il nuovo editing, che ha limato le scene più lunghe di ben 7 minuti, La ragazza senza nome sembra essere rimasto vittima della fretta sopraggiunta tra la fine delle riprese e la fase di postproduzione, periodo che i due registi solitamente utilizzano per prendersi una pausa indispensabile per far sedimentare la realtà del racconto e al quale avevano scelto di rinunciare pur di presentare il loro ultimo lavoro all’amata Croisette, altare sul quale sono stati benedetti per ben due volte con la Palma d’Oro.

Rinunciando, come era nettamente prevedibile per chi conosce l’idea di cinema dei due fratelli, a qualsiasi fascinazione per le derive noir che lo stesso titolo suggerirebbe, il film finisce per rifiutare sia l’intensità delle grandi parabole narrative, sia qualsivoglia sorpresa emotiva. E proprio come avviene per l’auscultazione toracica mostrata nell’incipit, nell’eccessiva attenzione riservata al processo di ricerca e individuazione della malattia, l’indagine filmica schiva ogni umana sofferenza. Controlla, come Jenny, ogni emozione. Con il rischio che lo spettatore – alla stregua dello stagista, forse immaturo o forse soltanto riluttante ad accettare fino in fondo l’impassibile, e a tratti disumana, professionalità del medico-mentore – possa correre via in preda allo smarrimento.

Autore: Domenico Saracino
Pubblicato il 08/11/2016

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