Roma 2015 / Freeheld
Un dramma coniugale sui diritti della comunità omosessuale che non riesce a eludere del tutto le trappole del ricatto emotivo.
Tratto da un cortometraggio documentario vincitore dell’Oscar nel 2007, Freeheld di Peter Sollett narra la vicenda di Lauren Hester, poliziotta della contea di Osage County interpretata da Julianne Moore, e della sua compagna Stacie Andree, che nel film ha il volto di Ellen Page: una coppia di donne che si vede negato il diritto alla pensione di reversibilità nel momento in cui Lauren si ammala gravemente, a causa di un’ostilità del voto repubblicano locale ben poco incline a cedere su un argomento delicato e scottante come questo, specialmente in relazione al consenso del proprio elettorato. Il film di Sollett tocca un nucleo tematico indubbiamente doveroso, lo fa con coscienza e delicatezza ma anche con tono spudoratamente didattico. Un tema, quello dell’accettazione della diversità sessuale, che specie in Italia, uno dei pochi paesi occidentali nei quali non esiste ancora una legge sui diritti civili, non può non stringere in una morsa la coscienza collettiva delle istituzioni e far riflettere un po’ tutti, data l’arretratezza del nostro paese e del dibattito pubblico in merito, ma che di sicuro non basta a mettere insieme un film degno di nota, specie fuor di retorica.
Si fa poi una precisa distinzione, all’interno di Freeheld: il personaggio della Moore dichiara di lottare per i diritti civili, non per il matrimonio gay (divenuto nel frattempo divenuto legale in tutti e cinquantuno gli Stati americani quest’estate, ricordiamolo), mentre il personaggio di Steve Carell, un chiassoso rabbino gay e leader attivista, le fa notare che se fosse stata regolarmente sposata, anziché dover sottostare all’etichetta opaca e di comodo di “coppia di fatto”, il problema non si sarebbe di fatto nemmeno posto. In questo scambio di vedute, tutt’altro che non condivisibile anche se un po’ telefonato e letterale, c’è di fatto tutto il film di Sollett: un’operazione sicuramente onesta e legittima, perfino ammirevole per la causa che decide di sposare, ma eccessivamente sfrontata nell’ergersi retoricamente a manifesto smaccato, a opera programmatica, a film-paladino della causa omosessuale. Una sensazione che è amplificata non soltanto dalla presenza in scena di Ellen Page, il cui coming out ha, come ricorderanno in molti, destabilizzato l’establishment hollywoodiano, ma anche dalle scelte espressive piuttosto al ribasso, che lo rendono un film confezionato ad arte per la missione che si prefigge ma poco vivo e pulsante dal punto di vista del linguaggio cinematografico. Che, non a caso, cerca costantemente l’effetto e si affida poco alle possibilità potenzialità civili della vicenda. Che pure ci sono, e sono moltissime, ma avrebbero meritato ben più rigore e coesione.
La scrittura, affidata allo stesso sceneggiatore di Philadelphia, va in questa direzione: silenzia o riduce all’osso il background degli eventi della storia realmente accaduta per puntare in maniera (in)discutibile sulla dittatura del coinvolgimento e dell’immedesimazione da parte dello spettatore, estinguendo ogni complessità attraverso il salvacondotto del pathos a buon mercato. Un ricatto emotivo che il regista prova a eludere puntando sulla recitazione di gran livello, soprattutto di una Ellen Page mai così brava, ma che inevitabilmente, nonostante gli sforzi, rientra dalla finestra in delle scene dal sapore troppo strategico per non destare allo spettatore il sospetto della commozione telecomandata e del patetismo di maniera. Di buono rimane soltanto la voglia di riflettere in maniera tutt’altro che banale o sciatta sui rischi della spettacolarizzazione mediatica o della deriva da circo di certe campagne pro-gay, un pericolo esemplificato a dovere dal personaggio sopra le righe di Steve Carell, il cui atteggiamento rischia di far confondere lo strillo della protesta colorita con la sostanza ben più importante di un diritto inalienabile da rivendicare. Ma si tratta di una riflessione mediatica dal sapore involontario, aliena rispetto alle corde del film e forse perfino accidentale.