Dossier Steven Spielberg / 13 – Il mondo perduto: Jurassic Park
Mentre aumenta le dimensioni dell'avventura, Spielberg descrive un complesso sistema di legami affettivi e parentali per definire la realtà, dando così vita a un'opera profondamente intima e personale
“È passato da capitalista a naturalista in quattro anni”: con queste parole, lo scienziato Ian Malcom (interpretato ancora una volta da Jeff Goldblum) riassume lo slittamento di ruolo cui va incontro il personaggio di John Hammond (Richard Attenborough) tra i primi due capitoli di Jurassic Park. Non che ci sia da stupirsi in realtà: più che una metamorfosi è una evoluzione necessaria a mantenere l’aura demiurgica di un personaggio che continua a riflettere lo stesso Steven Spielberg. Forse perché ormai consapevole di aver concluso con il primo capitolo la grande operazione teorica di riscrittura dell’immaginario lungo i nuovi termini definiti dall’estetica degli effetti digitali, il regista americano punta infatti a una nuova sfida. Da un lato una storia più grande, con toni più cupi e, soprattutto, una struttura meno compatta e più libera: non più l’idea forte del parco dei dinosauri, ma un’avventura à la Arthur Conan Doyle, citato sin dal titolo del romanzo di Michael Crichton che anche qui è la fonte della vicenda.
E se il papà di Sherlock Holmes si ritrova nel gusto per l’esplorazione di un mondo selvaggio e primordiale, dove dominano emozioni forti, il divertimento con cui Spielberg lascia agire i suoi personaggi ha una matrice più hawksiana – in particolare uno dei modelli dichiarati è Hatari! con le sue scene di caccia grossa e il rapporto divertente e divertito della coppia protagonista (lì John Wayne e Elsa Martinelli, qui Jeff Goldblum e Julianne Moore). L’oscillazione tra simili modelli evidenzia la voglia di sperimentare una narrazione che sia capace di passare tra situazioni e momenti estremamente diversi, che si pongano sia come sfida tecnica (si pensi all’incredibile esercizio di traiettorie che è la scena del camper in bilico sulla scogliera), che come possibilità di riscrivere continuamente le direttrici del plot: il film affastella infatti momenti ora ironici, ora di una cupezza quasi horror, ora ancora degni di una comica slapstick (il lungo rimpiattino con i velociraptor) e lascia che tutti questi toni si confondano tra loro, donando all’andamento del film una qualità anarcoide come rivedremo soltanto in film quali Transformers: La vendetta del Caduto. Michael Bay stesso cita questo film in molte delle sue pellicole (si pensi a tutto il finale con elicotteri spiegati e creature che aggrediscono autobus), segno di come Il mondo perduto: Jurassic Park sia una poco considerata matrice di tanto cinema a venire. Anche per questo, il citazionismo funziona a più livelli: l’assalto cittadino del T-Rex è tanto un aggiornamento di quello compiuto dal brontosauro nel Mondo perduto originale (quello del 1925 di Harry Hoyt), quanto una reminiscenza dei più celebri epigoni come King Kong o Godzilla – chiamato esplicitamente in causa nell’inquadratura in cui vediamo un gruppo di giapponesi in fuga. E nulla viene risparmiato, come evidenzia anche la continua riscrittura dei personaggi: uno su tutti lo spavaldo cacciatore Roland di Pete Postlethwaite, che sogna di cacciare un T-Rex, salvo poi abbandonare la cultura della morte per allontanarsi bogartianamente nella nebbia.
A questa grandeur generale, però, si unisce una cifra più intima, che ribadisce la natura personale del progetto: è il complesso di relazioni affettive che lega i personaggi secondo dinamiche parentali, da sempre care a Spielberg, e che funge da architrave per la tessitura degli snodi narrativi. L’intera vicenda prende così il via dall’assalto di alcuni sauri a una famiglia in evidente crisi (con padre e figlia che lamentano l’invadenza della madre), prosegue attraverso la difficile ricostituzione di un nucleo formato da Malcolm, la scienziata Sarah e la figlia Kelly, illustra lo spappolamento della relazione tra Roland e il figlioccio Dieter, trova un punto focale nel legame di sangue tra i tirannousari, ed eleva a nemesi generale l’arrogante Peter Ludlow, nipote reietto di Hammond, che ha preferito il benessere economico dell’azienda ai legami personali con il parente anziano. Questo complesso sistema di relazioni definisce così un mondo stavolta tridimensionale, dove i personaggi interagiscono tra loro, riportando la cifra digitale a una concretezza reale e molto tattile. I sauri stessi perciò adesso sanguinano e usano tutti i sensi, dalla vista, al gusto all’olfatto e il terreno del confronto non è più quello della superficie dell’inquadratura, ma al contrario dello spessore offerto da quei sentimenti che definiscono i personaggi in quanto figure attive e non più soltanto simulacro di una nuova estetica.
L’oscillazione di ruolo delle sue icone più rappresentative, riflette così quella di Hammond, che resta ancora una volta l’unico personaggio in possesso della visione complessiva, il visionario che suggella l’avvenuta transizione: da operazione teorica a racconto sofisticato e personalissimo, da parco di divertimento a celebrazione di un nuovo (eco)sistema, un cerchio si è ormai chiuso e il dittico ha raggiunto il suo stato di unicum autoriale. Spielberg, da sempre attento a dosare i seguiti, si fermerà qui e la saga proseguirà sotto altri registi, come il cucciolo di T-Rex educato dal genitore (è lui non a caso a eliminare il “cattivo”), ormai libero di correre con le sue gambe.