Roma 2015 / Junun
Paul Thomas Anderson firma un documentario musicale atipico e immersivo, che non esita a farsi spaccato antropologico ed etnografico.
Nella primavera del 2015 il maharaja di Jodhpur, in India, ha accolto il compositore israeliano Shye Ben Tzur insieme a Jonny Greenwood e Nigel Godrich, rispettivamente chitarrista e ingegnere del suono dei Radiohead, per realizzare un ensemble musicale che vedesse il loro contributo e quello di altri dodici musicisti indiani. Il risultato di tale incontro ha dato vita al film Junun, distribuito direttamente su Mubi e diretto da Paul Thomas Anderson, gigante del cinema americano contemporaneo nonché amico e stretto collaboratore di Greenwood, che ha filmato le improvvisazioni dei musicisti presso uno studio di registrazione indiano nel quale essi si sono trattenuti per tre settimane, suonando a stretto contatto e condividendo un comune clima di creatività.
L’operazione che il regista di Magnolia e Il petroliere mette in piedi ha del sorprendente, per libertà ed autenticità, per spessore formale e per capacità di catturare l’attenzione con pochissimi elementi a sua disposizione. Paul Thomas Anderson si rinchiude insieme ai performer all’interno di una fortezza indiana del XV secolo, diventando lui stesso un esecutore e appropriandosi di immagini a bassa definizione in digitale fluide e corpose: un flusso audiovisivo all’insegna dell’intimità, del cameratismo, della partecipazione e della collaborazione tra individui diversi, lontani per origini eppure affini e palesemente empatici. Il regista statunitense riesce a restituire tale sentimento di collettivismo e condivisione attraverso riprese il più possibile avvolgenti, un fiume in piena che non badi troppo alla punteggiatura del montaggio, in verità piuttosto libero e impressionistico, ma si concentri piuttosto sulla durata interna di ogni singola sequenza, sulla magia e il calore delle varie esecuzioni, sul mistero profondo di una musica immersiva e ipnotica, che eleva a potenza il potere della ripetizione.
Ciò che viene fuori è un documentario atipico e poco consueto, non solo per Paul Thomas Anderson, alle prese con qualcosa di apparentemente molto lontano da lui, ma per il “cinema musicale” tutto: una partitura sonora e visiva che non teme, in perfetta linea col titanismo e lo spessore del suo autore, di farsi carico di elementi etnografici e antropologici, “abbandonando” talvolta gli strumenti musicali e i musicisti per librarsi in aria con un drone. Sconfinando così fuori dalle finestre, negli skyline dell’India, nelle strade, nelle architetture, nei rumori e nel ronzio di una cultura che il regista dà l’idea di scrutare a 360°. Con curiosità e perizia, con onestà e sincero interesse, evitando tutti gli stereotipi e le scorciatoie che ingolfano di solito lo sguardo di chi, da occidentale, si mette a filmare l’India e il suo cuore più profondo, la conformazione territoriale, l’urbanistica, le tante peculiarità spesso inafferrabili e sfuggenti.
Muovendo dal film-totem in celebrazione dell’amico Greenwood e del suo genio creativo per altro all’origine di alcune colonne sonore dei film di Anderson, Junun riesce così ad andare decisamente oltre la propria stessa confezione, dando quasi l’idea di aver usato la musica come pretesto per dar vita a qualcosa di più grande: di fronte al calore condiviso di certe sequenze ci si dimentica quasi delle note e si arriva a credere di trovarsi davanti a una seduta spiritica, a un rito condiviso e animato da una ritmicità quasi sacrale. Un mistero nel quale il genio di PTA ci fa entrare dalla porta principale, sprigionando un’epifania visivo-sonora che scalda gli occhi e il cuore, rivelandosi a chi guarda e a chi ascolta in tutta la sua sommessa e non banale semplicità.