Roma 2015 / Showbiz
La malinconica solitudine del monoscopio: ovvero l'attempato lato B de La grande bellezza
Attraverso dei videotape, VHS recuperati ed accatastati su un tavolo, è così che inizia il documentario Showbiz di Luca Ferrari. Un blob visivo che schiarisce la notte che rabbuia i nightclub, discoteche e i locali a luci rosse di Via Veneto o dell’hinterland romano, con la stessa discrezione usata nei confronti di un’amante da nascondere, o di una puttana fidata, che tutte le notte riconosciamo – la prediletta del sogno o del palco nel locale preferito – che ben conosce come asciugare le lacrime di un giorno difficile. Neon divani e striptease. Le serate di "Miss Intimo" e "Miss Tanga", karaoke stonati con ospiti improvvisati, personaggi comuni sospesi nel successo, gli stessi che si riconoscono per strada pensando di conoscerli da sempre. Pornostar che sorridono e si prestano allo spettacolo del teatro catodico sul piccolo schermo o su di un palco stretto, buio e laterale rispetto al giorno, proscenio perturbante al rovescio rispetto a quello politicamente corretto esibito nello spettacolo trasmesso in prima serata. Aria di festa ed aria di hangover. Cosa c’è di più triste di un dopo serata? Quando il casino ed il ballo è finito e si torna ad essere soli? E’ questa una delle sensazioni che si avvertono durante la visione del film di Ferrari. Dei non-luoghi che contengono tutte le solitudini degli uomini, pronti ad affogarle nella carne e nelle forme, tra tette e culi di una gioventù che si tenta di rincorrere nonostante la si osservi sfuggire. Malinconico, triste, un riso allo stesso tempo dolce divertente ed amaro. L’avanspettacolo degli anni ottanta e novanta, prima di una lenta – ed inesorabile – provincializzazione e rarefazione del fenomeno popolare di una tv commerciale. Riccardo Modesti, Shultz, Stefano Natale e Massimo Marino, sono questi i nomi veri dei protagonisti della terza serata, Ferrari sembra sottintendere che dietro alle interpretazioni di Servillo prima, e di Germano ora con Suburra, nei loro ruoli di P.R. accalappia gente, di anime grigie detentrici dei segreti di una Roma notturna, ci sono questi personaggi reali in carne ed ossa. Maschere di un arte popolare da digerire su di un letto sfatto, tra la mezzanotte e le quattro del mattino. Anchorman del nudo femminile esibito, trasfigurati in personaggi petriani, mostruosi grotteschi e tanto reali quanto veri, divertenti e vitali, carichi di un’energica malinconia che spesso li ingabbia nei loro stessi ruoli, soggetti che ancora godono di una passata fama, che spesso li isola all’esterno della loro personalità, tra gli occhi degli altri, dalla loro identità primaria. Anime televisive in corpi creati su misura per un largo consumo: un sotterraneo e privato consumo. L’illusione che cede alla disillusione, attempati e vitali, degli arlecchini divenuti pantaloni. Personaggi rari che come ombre nel buio di Roma si muovono, proiettando la loro immagine su schermi illuminati dal prodotto in eccesso, scartato, di una televisione commerciale e regionale di terza serata. Il documentario dà la stessa sensazione di una sbornia ancora da recuperare, in un mattino confuso, dopo una serata passata ubriacandosi nel malinconico ricordo dei tempi passati. Senza alcun pregiudizio o giudizio morale Ferrari torna ad illuminare uno spaccato periferico romano, se nel primo documentario Pezzi la periferia veniva rappresentata ad un livello territoriale – puntando l’obiettivo sulla bisca della borgata Laurentino 38 – qui la periferia si sofferma sul livello temporale prossimo alla frontiera del tabù – è la Roma di notte e le sue forme televisive notturne ad essere la protagonista, e non importa se sia centrale o periferica o provinciale – è comunque nella sua accezione periferica di terza serata, nei locali alla periferia della notte, che essa si racconta.
E’ sorprendente arrivare a pensare come lo stesso Carlo Verdone, grande comico e caratterista italiano, abbia preso spunto da questo ecosistema di personaggi detentrici di una verace romanità per iniziare a costruire la sua carriera. Il personaggio reale ed amico -Stefano Natale - riprodotto dal caratterista – ma da grande osservatore sono molti i personaggi che Verdone recupera dalla realtà quotidiana - è identico al modello originale, non è deformato, o esasperato nelle sue caratteristiche comiche anzi, la simbiosi è perfetta, potremmo definirla di stampo quasi verista. Degli epigoni di Jep Gambardella che funzionano sul palcoscenico dello spettacolo e su quello delle relazioni pubbliche in quanto personaggi destinati sia alla vita di tutti i giorni sia al palcoscenico televisivo, orientati verso quella massa popolare in cui rientra il telespettatore medio. Attori nati che non interpretano nessuno ruolo, caratteri archetipici, che al massimo vengono interpretati.
Purtroppo la volontà dichiarata d’astenersi da qualsivoglia giudizio di Ferrari tende a raffreddare il mostrato sfocando l’obiettivo e l’idea – originale ed intelligente - di partenza. E se il documentario nell’intenzione vorrebbe essere una descrizione a carattere puramente espositivo dell’ambiente analizzato, il risultato finale si trasforma in un magma visivo senza collante; d’altronde se dall’unione anche solo di due fotogrammi si genera un’idea propria dell’enunciatore (Kulešov docet), rimane ontologicamente impossibile non esprimerla. L’unico modo per farlo è attraverso il carattere espositivo dell’operazione che oggettivizza il mostrato a discapito del punto di vista soggettivo: raffreddando così il tutto. Il materiale, l’idea, i personaggi ci sono, peccato per il piglio, troppo distaccato per il tema trattato, attenuando così il mordente delle immagini.
E giunge a tardi la serata, si avvicina la notte, con i suoi mostri e le sue bellezze, i locali iniziano ad aprire i battenti ed a mostrare le loro gole profonde.