C’è una cosa, o almeno una delle poche, che accomuna gli addetti al lavoro cinematografico (registi, attori, sceneggiatori e via dicendo), i critici e gli amanti della settima arte: la loro espressione ogni qual volta si parli di Roman Polanski.
In primo luogo gli occhi si accendono improvvisamente ed è quasi possibile notare, di riflesso nel cristallino, le più significative sequenze di film come Il coltello nell’acqua (1962), Repulsion (1965), Cul de sac (1966), Chinatown (1974), L’inquilino del terzo piano (1976) e l’ultimo film – presentato al Festival di Venezia e, probabilmente, uno dei suoi migliori lavori – Carnage, ovvero alcune delle più importanti opere del regista polacco naturalizzato francese. Poi però, quasi sempre, accade qualcosa di significativo: l’interpellato abbassa lo sguardo e resta immobile alcuni istanti, mentre il pensiero corre direttamente alla vita passata di Polanski e, quasi in una sorta di mesta simbiosi, s’intristisce ai ricordi di una sfortuna che mai ha abbandonato il regista.
Mette i brividi pensare, in una sola volta, a tutte le disgrazie passate da Polanski, e quasi ci si ritrova catapultati in una delle sue opere grottesche, kafkiane, nere e claustrofobiche, che non sembrano avere via di scampo se non quelle della follia e/o della morte. Si potrebbe parlare della sua infanzia vissuta all’ombra del nazismo, la sua prigionia e la fuga (non aveva più di cinque anni) dal ghetto di Cracovia; la visione della madre deportata ad Auschwitz e la sua successiva morte – chi non ricorda Il pianista (2002), film tratto dal romanzo autobiografico di W?adys?aw Szpilman, nel quale però Polanski ha inserito molto di suo? Ma la vicenda che ancora oggi tormenta il regista accadde l’8 agosto 1969 (pochi mesi prima aveva perso la vita, in un incidente sciistico, il musicista Krzysztof Komeda, amico e compositore di Polanski): il regista è a Londra per lavoro, mentre sua moglie Sharon Tate è nella sua villa a Los Angeles, incinta di 8 mesi. Dopo una cena fuori accompagnata dagli amici Steven Parent, Jay Sebring, Wojciech Frykowski e Abigail Folger, i cinque fanno ritorno a casa di lei. Durante la notte, però, c’è l’inaspettata visita di alcuni membri della “famiglia” di Charles Manson che decidono d’interrompere la festa con l’omicidio di tutti i presenti, compresa ovviamente Sharon Tate. Dell’anno prima è Rosemary’s Baby, il film più tortuoso e diabolico di Polanski.
Ciononostante, ciò che viene in mente pensando a Roman Polanski – addirittura più del brutale assassinio della moglie – è l’accusa di violenza sessuale con l’ausilio di stupefacenti ai danni di una minorenne: Samantha Geiger, tredicenne all’epoca dei fatti (era il 1977), denuncia il regista che viene condannato, in principio, a scontare 42 giorni di detenzione nella prigione di stato della California, a Chino. All’uscita dal carcere, capendo che il giudice avrebbe respinto la condizionale, Polanski decide di fuggire a Londra e, da qui, dato anche il fatto che il Regno Unito avrebbe concesso l’estradizione, il regista fugge definitivamente a Parigi, senza mai più poter tornare né negli Stati Uniti né in qualsiasi altro paese avente convenzione di estradizione con gli USA.
Questo è l’evento negativo che più di tutti ha influito nella vita di Polanski, non in termini di dolore fisico o spirituale (così come la morte della madre o il brutale assassinio della moglie Sharon Tate), ma per quel che riguarda un vero e proprio strascico che ancora oggi il regista porta con sé. Non a caso, il 26 settembre 2009, recatosi a Zurigo per ricevere un premio alla carriera, Polanski venne arrestato all’aeroporto elvetico su richiesta degli Stati Uniti tramite mandato di cattura internazionale. Anche qui però Polanski ha evitato l’estradizione, dato che il Tribunale di Bellinzona decise di cambiare la detenzione in carcere in arresti domiciliari: non solo Polanski subì un controllo elettronico, ma gli vennero ritirati i documenti e fu costretto a pagare una cauzione di 4,5 milioni di franchi svizzeri. Un punto cruciale, quindi, per la vita del regista, che trova una ricostruzione ben precisa (rispetto ai tanti dati confusionari offerti dai media, statunitensi e non, fino a poco tempo fa) nel documentario Roman Polanski: Wanted and Desired, diretto dalla regista americana Marina Zenovich – già autrice di un altro bel documentario, Who is Bernard Tapie? (2001), capace di ricostruire la grande ascesa e la successiva caduta dello sportivo, attore e politico francese.
Il film della Zenovich, finito nel 2008 e mai giunto in Italia se non direttamente in formato DVD, ripercorre l’intera vicenda, basandosi su un ottimo lavoro di ricerca dei giornali dell’epoca e andando a intervistare sia i diretti interessati, sia le persone coinvolte in maniera secondaria. Ciò che viene fuori dai 75 minuti di film è qualcosa di superlativo a livello di “conoscenza dei fatti”, senza però che l’autrice prenda una posizione, pro o contro il regista. Le immagini scorrono diligentemente veloci, quasi come se si stesse assistendo ad un cinegiornale d’epoca, intervallate dalle interviste rilasciate dallo stesso Polanski, da Samantha Geiger e altri involontari protagonisti della vicenda. Interviste e ricostruzioni che servono a vederci chiaro, ma soprattutto interventi che aprono degli spiragli nuovi, andando al di là delle semplici informazioni giornalistiche che sottolineano sempre più lo scandalo che gli eventi. È il caso, ad esempio, dell’intervista a Douglas Caston, il legale difensore di Polanski, che racconta come il regista sia riuscito a lasciare gli Stati Uniti. Oppure, sempre per quanto riguarda “la fuga”, finalmente il tutto viene spiegato al di fuori del solito luogo comune che vede Polanski come il latitante che vuole evitare la giustizia: viene alla luce che il procuratore distrettuale influenzò illecitamente il giudice senza che la difesa e persino il procuratore distrettuale incaricato del caso lo sapessero. Tante novità, dunque, che hanno portato il documentario della Zenovich ad essere utilizzato dai legali di Polanski come nuova prova al fine di archiviare il caso.
Roman Polanski: Wanted and Desired si propone non solo come un ottimo documentario che si basa su una terribile vicenda accaduta ad uno dei più grandi registi contemporanei, ma allo stesso tempo viaggia, in modo interlineare, attraverso la giustizia americana e i tanti buchi che, molte volte, la rallentano e caratterizzano. Un documentario che, come detto, non accusa né prende le difese di Polanski, ma espone i fatti così come realmente si sono svolti, senza ombre e confusioni. Un film, dunque, da recuperare assolutamente, perché inquadra il regista al di fuori della sua vita lavorativa, scavando più a fondo, in quel privato dell’autore che, più di una volta, ha confluito nei suoi film, rendendoli quei capolavori che tutti noi conosciamo.