Triangle of Sadness: gli anni della Östlund-mania sono appena cominciati
Satira politica per il Cinema senza politica.
La riscoperta in ottica internazionale della Commedia all'Italiana e la sua preistorica lezione è una delle svolte più curiose di questo nuovo decennio. Settant'anni dopo i primi fuochi monicelliani, coniugare l'ironia "bassa" a un'amara consapevolezza sociale è il nuovo trend del cinema arthouse più commerciale - quello che convince la critica giusta, stacca biglietti e alza i premi. Un sussulto partito forse proprio con The Square e Ruben Östlund, passato necessariamente per il trionfo di Parasite agli Oscar di due anni fa, fino a piccoli grandi cult televisivi recenti (The White Lotus) e la nuova Palma di Triangle of Sadness. Il fenomeno-Östlund, che di questa tendenza è il poster boy, può essere spiegato soprattutto così: la risposta alla necessità, non ancora pienamente formalizzata, di riscoprire un tipo di cinema morto con il Novecento, e la visione del mondo di cui fu manifesto.
All'annunciato film della consacrazione, l'autore abbraccia quindi il comico senza più remore, esplicitando la matrice pop della propria opera con un doveroso omaggio ai padri. Ora il consueto collage di algidi sketch si articola ordinatamente su due atti paralleli, con Hollywood Party da un lato e Travolti da un insolito destino dall'altro a fare da rispettivi layout: una crociera di lusso e il suo tragicomico after, seguendo il fascino affatto discreto dell'alta borghesia occidentale nella propria celebrazione, e inevitabile liquidazione.
Triangle of Sadness è l'opera più divertente, ambiziosa, e meno bella di Östlund. Vistosi forse superato a destra per nichilismo e abrasività da Yorgos Lanthimos (il cui cinema ha sempre un po' ricordato), lo svedese ha oggi definitivamente sciolto il ghiaccio teorico dei primissimi lavori (Play, di soli dieci anni fa, sembra diretto da un'altra persona), sposando la causa più superficialmente politica della propria poetica. Una consciousness un po' compiaciuta, che frena parzialmente lo slancio di un autore più bravo a vedere l'assurdo che a spiegarlo.
A Triangle of Sadness manca una presa salda su quella lettura marxiana della società con cui pure pretende di spiegare il contemporaneo - approssimazione sintetizzata, forse volutamente, dalla battaglia a colpi di citazioni sbagliate o storpiate messa in bocca a due bizzarri personaggi, probabilmente pescate a caso da qualche pagina Instagram. Nei primi '70, Lina Wertmüller trovava in un secolo di materialismo storico, cinquant'anni di PCI e altrettanti di teoria gramsciana gli strumenti tecnici per dissezionare l'inconscio italiano nell'era del benessere e dei consumi; riflesso di quell'umanità che critica e che lo incorona, il cinema di Östlund è invece post-ideologico alla radice, e la sua analisi delle diseguaglianze nel villaggio globale più di pancia che di testa (e sia dunque affidata alla pancia e agli intestini la protesta che le parole non sanno esprimere). Il ricorso a un finale apertissimo appare significativo: se la chiusura del teorema è lasciata alla buona volontà del pubblico, è perché non c'è alcuna tesi definita a indirizzarne il discorso.
Se il paragone va portato fino in fondo, le basi di Triangle of Sadness non stanno allora in Wertmüller e men che meno in Ferreri (a proposito di pancia e merda) - ma nei Vanzina, al cui imprescindibile Selvaggi (1995) il film strizza più di un involontario occhiolino. Come già l'enciclopedico studio del cafonal offerto dagli ineffabili fratelli, così Östlund pare più interessato alla messa alla berlina del nouveau riche (in questo caso il suo Nord Europa), che alle ragioni di chi sta "sotto". Bersaglio favorito della satira è quindi la pochezza umana, culturale e infine linguistica di questi idioti, colpevolmente ignari delle feroci strutture classiste che ne sorreggono l'esistenza. Ma se il demenziale balbettio para-woke dei due (perfetti) anti-eroi non è più sufficiente a decodificare il mondo, lo stesso potrebbe dirsi delle macchiette di un Sud Globale campione di pesca e campeggio messe in scena come vitale alternativa. Non è un caso se nel migliore The Square il punto della questione fosse proprio l'assenza cinematografica dell'Altro, entità invisibile che pure pareva tremare sotto i piedi degli imbecilli protagonisti.
Meno bunueliano del precedente, Triangle of Sadness lima i propri spigoli in un discorso più ampio, indulgente, piacione e un po' semplicista - come i veri blockbuster devono fare. Dopotutto è anche questo che (ci?) piace del nuovo Ruben Östlund: nella sua onestà di satirista accessibile e pop, è il punto di riferimento di un largo pubblico che va riscoprendo, una Palma d'Oro alla volta, l'utilizzo dell'arto psichico destinato alla lettura politica del mondo che abita. La complessità di tale lettura maturerà col tempo. Se questa tendenza lascerà la cerchia dei festival per contagiare una nuova produzione mainstream, e revitalizzare la catatonica commedia di questi anni, sarà anche e soprattutto grazie a lui.