Matthias & Maxime
Un cinema in cui la vita semplicemente accade, un racconto di educazione sentimentale che riflette sull'identità e gli affetti attraverso ricorsi melò controllati e maturi.
Sulla guancia di Maxime spicca una voglia rossa, un rivolo informe che sgorga da sotto la palpebra, come se l’occhio destro avesse lacrimato sangue e quel rosso si fosse sedimentato sottopelle. Un marchio scarlatto che evoca toni da melodramma, l’elemento di genere più riconoscibile e specifico del cinema di Xavier Dolan, che qui per la prima volta si asciuga e resta traccia rizomatica, vibrazione costante, eterno “sfregio” sottopelle al quieto viversi del reale. Ma a un certo punto del film, dopo un terribile litigio familiare (ancora una volta con una madre problematica), quella voglia torna a essere ferita che perde e sporca, il sangue cola sul volto di Maxime e ci riporta ai picchi melò di questo cinema, agli eccessi strabordanti di sentimento che facevano vacillare la tenuta di alcuni film precedenti ma che qui puntellano soltanto, e accendono a perfezione un racconto mai così intimo, controllato, maturo. Matthias & Maxime forse non è il miglior film di Dolan (per molti rimarrà Lawrence Anyways) ma poco importa, perché certamente questo ritorno a temi e atmosfere familiari, dopo le mille difficoltà di La mia vita con John F. Donovan, regala un potente racconto di educazione sentimentale, un film che da etichetta potremmo dire semplice e sincero ma che preferiamo chiamare vivo, immanente, vicino come una luce che si accende dentro e scalda e ci riporta a un sentire e un desiderio comuni.
Come sempre Dolan è autore completo, cura regia, sceneggiatura, montaggio, costumi e si produce il suo ottavo film, di nuovo in concorso a Cannes, distribuito da noi direttamente in streaming e pay TV a causa dell’emergenza sanitaria. E come sempre il suo cinema si dimostra capace di riflettere sulla narrativa attraverso la forma, che dialoga con la storia del cinema grazie alla lingua del melodramma. Ma Matthias & Maxime è un film troppo caldo e vicino per essere apertamente cinefilo; ogni suggestione visiva, ogni riflessione formale deve anzitutto fare i conti con l’asciutta efficacia del racconto, che mette in scena il faticoso armonizzarsi del sentimento tra due personaggi fuor di sesto, disallineati rispetto a loro stessi, costretti dal contesto normalizzante a viversi lontani dalla loro identità. E proprio questa crisi del sé genera a cascata incrinature in ogni aspetto delle relazioni sociali – amicali, affettive o lavorative che siano – perché l’identità anzitutto sessuale, il modo di viversi e desiderare, di immaginare corpi e movimenti, è la pietra angolare del quotidiano, le fondamenta dell’individuo. Matthias e Maxime non possono risolversi se non affrontano, anche attraverso il conflitto, la forma genuina del loro Io, se non si lasciano, semplicemente, liberi di essere.
Da questa ricerca identitaria Dolan ricava un film in cui il controllo della materia lascia sbalorditi – e il talento, anzitutto tecnico, di questo ex enfant prodige si nota soprattutto nella direzione degli attori (di cui lui è parte) e nell’uso compositivo delle musiche – ma non è tanto, o meglio non solo, la sua capacità epidermica di pensare e creare il cinema a renderlo un regista importante. Matthias & Maxime è tra i grandi film dell’anno perché reifica uno sguardo in grado di dialogare con l’oggi al di fuori della nostalgia eighties o della reiterata mimesi pedinante e tattile di certo cinema “del reale”; Dolan è creatura degli anni Novanta e in quanto tale – in un cinema occidentale che tende a ridurre la sua storia a simulacro privo di sostanza – genera film che seppur sbilanciati, a volte barocchi, sono figli del passaggio tra il Novecento e il Duemila e di tale fase gestazionale riflettono la dimensione genuinamente popolare. Ecco, se dobbiamo immaginare un cinema cultural pop degli anni Duemila è certamente il caso di Dolan, e Matthias & Maxime prosegue su questa strada mescolando lontani echi del dispositivo – il ruolo epifanico del cinema; il cambio di formato a sottolineare il picco emotivo; il ricorso a porte e finestre che stringono i personaggi e richiamano le gabbie visuali degli sguardi smartphone – a strategie formali storicizzate – il carrello che avanza e retrocede su Matthias, in strada tra le foglie al vento del melò; gli zoom che aggrediscono i volti e accelerano il ritmo dei dialoghi, come in certo new cinema anni Sessanta; il ruolo della musica nelle scene di gruppo, come in molto indie dei Novanta – ma tutto è sempre al servizio della storia e del sentimento, e un’estetica estremamente consapevole, eppur naturale, riesce a porsi di lato rispetto al farsi degli eventi, semplicemente accanto. Matthias & Maxime è la vita che scorre sullo schermo, quando si srotola imprevista e corre via dove non pensiamo. È la vita che accade. E il cinema lì, che avviene e si manifesta al contempo, lavorando in silenzio, si dona a noi.