Judy
Interamente costruito sul volto di Renée Zellweger, Judy si afferma come un veicolo da Oscar per l'attrice americana e sceglie la via della semplificazione più tradizionale.
Come quella di Judy Garland negli anni ’50 del secolo scorso, anche la carriera di Renée Zellweger ha subito una brusca interruzione tra il 2009 ed il 2016, periodo durante il quale l’attrice che ha prestato il volto alla celebre Bridget Jones è stata ostracizzata dal mondo hollywoodiano. Per tale ragione, i motivi di interesse nei confronti di un film che avrebbe potuto dar vita ad un cortocircuito tra la vita delle due interpreti, e costruire un dialogo relativamente agli aspetti privati e pubblici della loro esistenza, promettevano bene.
Judy di Rupert Goold prende in esame l’inizio e la fine della carriera della Garland, escludendo tutto ciò che è compreso tra la promessa fattale da Louis B. Mayer («Tu hai una voce che potrebbe portarti ad Oz») e la fine della carriera. Questa scelta di escludere la (sua) vita dal tessuto narrativo del film ha delle naturali conseguenze sul suo sviluppo. Perché ciò che più manca in Judy sono proprio il cuore e l’anima. La Garland arriva a Londra durante l’inverno 1968. La voce non è più quella di una volta e l’attrice versa in pessime condizioni economiche. A ciò si aggiunge la drammatica fine dell’ennesimo matrimonio, un feeling difficile con il pubblico ed i traumi dell’infanzia che non l’hanno mai abbandonata.
Per certi versi, questo film diretto da un regista teatrale somiglia molto a Seberg, presentato in anteprima in occasione dell’ultima edizione della Mostra del Cinema di Venezia. Entrambi, infatti, sono costruiti sui corpi scenici delle loro protagoniste con l’obiettivo non tanto velato di lanciare Kristen Stewart e Renée Zellweger verso la nomination agli Oscar. Mentre, tuttavia, l’interpretazione della prima funziona e salva dal tracollo la semplificazione applicata al film da Benedict Andrews, la medesima cosa non vale relativamente alla seconda performance. Sotterrato da una quantità esagerata di make-up, il volto della Zellweger finisce per somigliare ad una creazione gommosa priva di vitalità e a scomparire sotto il peso di innumerevoli faccette che provocano il solo risultato di rendere poco credibile lo sforzo attoriale.
Ogni aspetto potenzialmente provvido di sfaccettature melodrammatiche è trattato superficialmente e la sensazione che si ha è quella di una svogliata partita a tennis in cui ogni atleta segue puntigliosamente il compitino che gli è stato affidato, senza lasciare spazio al coraggio di osare. È un vero peccato che non ci sia mai spazio per il sogno né tantomeno per un adattamento che trovi la forza di uscire dai rigidi confini del biopic tradizionale per abbracciare lo spettro di un’infanzia irrimediabilmente perduta. Judy non riesce mai a penetrare veramente l’infernale incanto del mondo di Oz e dello spettacolo hollywoodiano e, in tal modo, non riesce a restituire alcunché a uno spettatore che perde rapidamente interesse nei confronti di questo cinema compassionevole che, in fin dei conti, assolve di continuo sé stesso e seppellisce i propri demoni.