The Salvation
Levring omaggia un genere che fece della frontiera la sua terra di conquista e libertà. Ma la sua rilettura è di quelle senza il gusto per la scrittura, perdendo ben presto dimensione e carattere
C’era una volta il selvaggio vecchio West. Territorio di frontiera tra le guglie rocciose della Monument Valley ’testimoni di erosione’, universo distante nel tempo, luogo di antiche vestigia percorso da personaggi silenziosi e solitari in cerca dell’austera bellezza, di un barlume d’oro, di vendetta. Divenuto un genere artistico e molto popolare, il western ha dato luce via via a topoi sempre più citazionistici fino a quelle operazioni postmoderne che da più parti, ancora oggi, si cercano di rinnovare o tenere in vita. E se i cattivi sanguinano nelle fredde saghe nordiche, perché lo stesso non dovrebbe accadere in un mondo - senza legge e giustizia – calato dentro uno scenario leggendario?
Autore di un piccolo grande cult dal nome Il re è vivo, il cineasta Kristian Levring passa dai fasti del Dogma 95 (fondato, fra gli altri, assieme a Lars von Trier) per sposare degnamente in The Salvation il mito con il moderno; spingendo sul pedale di una fotografia satura e dai toni cupi le sue ingenti ambizioni autoriali, che scadono presto nel laccato ’gusto europeo’. L’attenzione all’autenticità dell’ambientazione (gran parte girata in Sud Africa) si abbatte, così, nel lavoro di sottrazione che il regista danese porta a ridosso di una storia funzionale agli eventi narrati, ma che pare più scimmiottare gli incipit classici (quella Salvezza sottolineata dal pletorico titolo) che prendere a saccheggio le confezioni ad arte di opere scanzonate come il Pronti a morire di Sam Raimi. Al contrario, c’è davvero poco di originale nella sceneggiatura scritta da Anders Thomas Jensen, ben assestata verso uno sguardo saldo sul presente dove sgorganti pozzi di olio nero e maleodorante segneranno il definitivo tramonto dell’arcaico Ovest.
Vicino ai capisaldi americani, The Salvation è un revenge-movie in salsa cowboy che si mette al servizio dell’eredità del Western Classico, omaggiando apertamente John Ford e sognando Sergio Leone attraverso dialoghi scarni, sanguinolente rese dei conti e un prologo parte integrante di una giustizia artigianale e carnale. Perché il Nuovo Mondo non offriva solo la possibilità di sfuggire agli orrori della guerra (qui Danese) o di realizzare la propria fortuna abbandonando le radici per partecipare alla nascita di una nazione. L’america del 1870 era il miraggio di una Terra Promessa: un paesaggio desertico e sconfinato in cui i destini degli uomini scatenavano vortici di dolore, di orrore, montando a cavallo e terrorizzando le cittadine, gli impavidi sceriffi, i sindaci corrotti: tutto secondo i crismi dell’epica di frontiera che si riflettevano nella liricità della perdita della speranza o nel look visivo che traduceva il contenuto dei pensieri in azione. Figure immancabili di un mitico immaginario, che Levring fotografa senza portare nulla di nuovo o d’incisivo, durante le tappe di una tragedia (prima famigliare, poi carica di miseri spunti narrativi) a cui seguirà un confronto senza esclusione di colpi. Lungo un canonico sviluppo che adotta la piramide della vendetta, alla quale ascenderanno le sofferenze perseguite dalla malasorte di Mads Mikkelsen e quelle condannate al silenzio di una donna-muta, quasi camp, Eva Green. Sono i loro volti, come la bidimensionalità delle atmosfere evocate dagli sfondi in CGI, a venire meno alla ’ricetta originale’ (l’ostilità di un ambiente intriso di polvere e crudeltà), cui si aggiungono i richiami all’inesauribile fascino che spingeva gli americani nelle terre selvagge.
Un giocattolo dalle bizzarre composizioni che pur allestendo un cast di richiamo (ricordiamo anche il villain Jeffrey Dean Morgan, al fianco del redivivo Eric Cantona e al becchino Jonathan Pryce), non riesce mai ad infondere agli eventi la giusta dose di concretezza. Negligenza di un’incertezza autoriale votata all’amore per il genere, ma incapace di trasmettere il pieno delle turbolenze emotive nel contenitore del già visto e del prevedibile. Mediante un’iconografia tutt’altro che incline a mitigare certa violenza, The Salvation è allora un b-movie contemporaneo mosso da un’estetica snob quanto retto su una storia dal sapore prettamente classicheggiante. Forse, sotto le superfici levigate da agguati e vendette trasversali, è nella riflessione politica (finale) che Levring mostra qualche propria qualità: l’evidente fallimento di un Paese mai realmente ’risorto’, in cui onestà e fede si sovrapposero fino a perdersi nel mare di rovine (come la tana del cattivo Delarue) costruite sull’annullamento completo di qualsiasi collettività. Digressione ambiziosa, però privata di una reale anima.