Saving Mr. Banks

Nel corso degli anni, John Lee Hancock ha battuto la strada di un cinema edificante, glorificatorio, sempre al limite tra moralismo e retorica. Dall’epopea sull’eroismo americano (Alamo, gli ultimi eroi)alla celebrazione repubblicana dell’American Dream nel pluripremiato The Blind Side, la sua visione su celluloide è l’inconscio collettivo della borghesia americana. Cinema nazional-popolare all’ennesima potenza, pensato appositamente per la larga fruizione, per l’applauso e per la lacrima della massa. Saving Mr. Banks – progetto Disney autocelebrativo per il cinquantesimo anniversario del classico per famiglie Mary Poppins - rappresenta, quindi, il banco di prova perfetto per il solco cinematografico in cui Hancock vuole situarsi.

Il film racconta la vera storia di come Walt Disney (Tom Hanks) riuscì ad ottenere i diritti del romanzo della scrittrice Pamela L. Travers (Emma Thompson) attraverso un’estenuante trattativa durata quasi vent’anni. Il timore della scrittrice era quello di veder trasformato, tramite la colorata macchina hollywoodiana della Disney, il suo lavoro in qualcosa di frivolo, banale, che avrebbe deformato la profondità delle pagine del suo lavoro giovanile Mary Poppins. Sul cominciare degli anni sessanta, la scrittrice, a causa di problemi economici, è costretta dal suo agente ad accettare l’invito di Walt Disney e ad intraprendere un viaggio dall’amata Londra ad Hollywood per discutere della possibilità del progetto cinematografico. Emma Thompson si dimostra particolarmente efficace nel non rendere irritante il personaggio stereotipato della donna inglese algida e razionale, ossessionata dalle good manners e dal formalismo, e il conseguente scontro con l’approccio americano sciolto e solare. Ai momenti leggeri, in cui a farla da padrona è il cinismo e la critica impietosa della Travers ai tentativi di adattare per il grande schermo la sua opera, si alternano i flashback dell’infanzia della scrittrice. Tramite questi salti narrativi, Hancock ha la possibilità di passare dalla commedia al dramma, disvelando gradualmente le radici del difficile carattere della scrittrice e del suo profondo legame con il romanzo. Mary Poppins non è altro che la sublimazione del suo passato e dell’aperta ferita di un padre affettuoso, ma alcolizzato e incapace di provvedere alla sua famiglia. Il tentativo, tramite la potenza dell’immaginazione, di aggiustare le crepe della vita reale passa, quindi, attraverso la figura di una tata severa (idealizzazione di una zia che avrebbe dovuto “sistemare ogni cosa”), ma capace di porre ordine dove è necessario. I retroscena e l’aneddotica raccontati nel film, gettano una luce differente sul personaggio apparentemente secondario di Mr. Banks – il padre di famiglia interpretato da David Tomlinson nello storico lungometraggio – vero perno intorno a cui si intreccia la vita reale della scrittrice e l’intenzione profonda della sua opera: che altro non è se non un disperato gesto di redenzione per la figura del padre. Il film è sorretto dalla buona prova dell’intero cast (Colin Farrell e Paul Giamatti, pur in ruoli di secondo piano, non rimangono nell’ombra) e dai godibili botta e risposta tra i due protagonisti, i quali instaurano un rapporto sempre più profondo, quasi psicoanalitico, in cui far emergere le proprie contraddizioni. Tom Hanks/Walt Disney riuscirà ad ottenere i diritti del romanzo proprio grazie alla capacità di entrare in empatia con Pamela Travers, raccontandole del proprio analogo passato complicato e comprendendo i fantasmi di lei.

Hancock dirige un prodotto fin troppo ordinato e controllato, in cui ogni scena è matematicamente costruita per ottenere gli effetti desiderati. Tendenza costante del suo cinema è quella di semplificare ad hoc le storie e i personaggi per farne dei piccoli paradigmi morali da gettare al grande pubblico. Dalle immagini non trasuda l’intenzione di dare profondità al prodotto; tutto segue i codici più noti del sentimentale, del siparietto comico e del drammatico, tra cui Hancock snoda la sua narrativa fino al prevedibile finale. Personaggi statici, la cui evoluzione è già chiara fin dall’inizio, che devono solo comunicare un messaggio facilmente fruibile e il più possibile immediato. Un lezioso teatro dei buoni sentimenti in cui la capacità individuale di risollevarsi batte sempre qualsiasi condizione sociale ed esistenziale. Cinema in bilico tra messa in scena classica e ideologia; un prodotto per cui gli analisti della pop culture – à la Slavoj Žižek, per intenderci – andrebbero matti. L’operazione viene condotta, inoltre, con una certa furbizia: nel complesso, la pellicola sembra voler accennare perfino un discorso critico e neutrale sulla figura controversa di Walt Disney, a metà tra eterno bambino e re Mida di Hollywood; ma, alla fine, tutto si dissolve nel sorrisone rassicurante di Tom Hanks e nel finale catartico che fa contenti tutti. Saving Mr. Banks è un prodotto abile e calcolato che, per le sue intenzioni, funziona anche discretamente; ma non stupisce affatto l’indifferenza ricevuta agli Academy Awards in cui ha totalizzato solamente una nomination per la miglior colonna sonora.

Autore: Simone Sauza
Pubblicato il 16/08/2014

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